Il giovane Mussolini legge Nietzsche in un testo comparso nei numeri 48, 49 e 50 - usciti tra novembre e dicembre del 1908 - della rivista Il Pensiero Romagnolo, organo del Partito Repubblicano della regione.  LA FILOSOFIA DELLA FORZA
(postille alla conferenza dell’on. Treves)
di Benito Mussolini
Più che trattare di una Filosofia della Forza, e cioè di una filosofia che abbia qual nucleo centrale e irradiatore una ben determinata nozione di forza – la conferenza dell’on. Treves è stata una chiara, sintetica, brillante esposizione delle teorie di Federico Nietzsche. Treves sa che il Wille zur Macht è un punto cardinale della filosofia nietzscheana, ma ci sembrerebbe inesatto affermare che a quell’unica nozione possano ridursi tutte le idee di Nietzsche. Non si può definire questa filosofia, poiché il poeta di Zarathustra non ci ha lasciato un sistema. Ciò che v’è di caduco, di sterile, di negativo in tutte le filosofie è precisamente “il sistema”, questa costruzione ideale, spesse volte arbitraria ed illogica, tale da dover essere interpretata come una confessione, un mito, una tragedia, un poema.
Nietzsche non ha mai dato una forma schematica alle sue meditazioni. Era troppo francese, troppo meridionale, troppo “mediterraneo”per “costringere” le speculazioni novatrici del suo pensiero nei quadri di una pesante trattazione scolastica. Ma creatore di sistemi filosofici o no, Nietzsche è pur sempre lo spirito più geniale dell’ultimo quarto del secolo scorso e profondissima è stata la influenza delle sue teoriche. Per qualche tempo gli artisti di tutti i paesi, da Ibsen a D’Annunzio, hanno seguito le ombre nietzscheane. Gli individualisti un po’ sazi della rigidità dell’evangelio stirneriano si sono volti ansiosi a Zarathustra e nella filosofia dell’Illuminato trovano il germe e la ragione di ogni rivolta e di ogni atteggiamento morale e politico. Non mancano gli imbecilli che chiamano super-umanismo certo equivoco dandismo da efebi e invocano la solita “torre d’avorio” per celare a chi sa essere osservatore il vuoto spaventoso delle loro scatole craniche. Infine – per completare il quadro – ecco i filosofi salariati che hanno la religione del 27 del mese – gli accademici – questi goffi rappresentanti della scienza ufficiale – che scongiurano la giovinezza di non cedere alle lusinghe dei nuovi pensatori liberi, dal momento che Federico Nietzsche, capo riconosciuto di questi homines novi, ha passato gli ultimi anni della sua vita nelle tenebre della pazzia. Nietzsche è dunque l’uomo più discusso dei giorni nostri. L’uomo, ho detto, perché in questo caso è l’uomo appunto che può spiegarci il grande enigma.
II
« Iraq, trincea d'Eurasia » |
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Scritto da Edizioni All'Insegna del Veltro
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Lunedì 10 Maggio 2004 01:00 |
Libro-intervista a cura di Tiberio Graziani
Prefazione di Enrico Galoppini
Seguito dal saggio “L’Asse e l’Anaconda. L’Iraq di fronte alla conquista dell’Eurasia” di Carlo Terracciano.  Prefazione
di Enrico Galoppini
Il controllo del discorso sull’Iraq
Chi leggerà questo libro-intervista, che a causa di una limitata distribuzione non godrà della grancassa delle recensioni importanti, con buona probabilità fa parte di un’élite, di quelle persone, cioè, che s’interrogano e che hanno intuito che qualcosa nelle versioni ufficiali non va, che hanno fiutato l’«inganno iracheno».
Senza voler fare dello snobismo, e se si hanno delle relazioni con persone di varia estrazione, ci si rende facilmente conto però che si è letteralmente circondati da gente per la quale sapere che un Paese viene aggredito pretestuosamente e sottoposto ad ingiustizie a catena non costituisce un fattore di scandalo. Si tratta di persone spesso in buona fede, ma che per semplice ignoranza o perché «si informano» quel tanto che reputano bastevole, provano compassione, sgomento e indignazione per le tragedie che colpiscono popoli interi solo se glielo ordina il telegiornale.
A queste persone vorrei davvero che giungesse questo volumetto, di modo che si rendano conto che mentre un mondo cosiddetto «libero» viene immerso a forza nell’atmosfera da psicodramma collettivo delle celebrazioni della prima ricorrenza dell’11 settembre e dell’avvio di Enduring freedom, in Iraq si ricordano, certo più sommessamente, i dodici anni di un evento realmente duraturo, tanto che verrebbe da chiamarlo Enduring embargo.
Ma i «padroni del discorso» hanno buon gioco nell’aver partita vinta: l’embargo all’Iraq ha decretato la morte mediatica di questo Stato, che non riesce più a far sentire la propria voce al resto del mondo. Tutte le calunnie sono permesse senza tema di smentita.
L’ultima, davvero esilarante, riguardava un “figliastro di Saddam Hussein” intento ad ordire trame malefiche per sabotare il 4 luglio degli americani. Anche gli sbarchi di disperati sulle coste italiane offrono lo spunto per disinformare, e in totale contraddizione rispetto a quanto evidenziano le immagini questi sono metodicamente descritti come “di profughi in maggioranza curdi”. Non vittime della pulizia etnica strisciante messa in atto dalla Turchia (paese dal quale salpano appunto le «carrette del mare»), ma “in fuga dal regime di Bagh |
"+Un impero di 400 milioni di uomini: l'Europa"+ |
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Scritto da Claudio Mutti
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Lunedì 10 Maggio 2004 01:00 |
L'introduzione alla nuova edizione del celebre testo di Jean Thiriart, in preparazione presso le Edizioni Controcorrente. Vita ed opera del padre nobile dell'europeismo nazionalrivoluzionario.  L’ultimo ricordo che ho di Jean Thiriart è una lettera che mi scrisse alcuni mesi prima di morire: mi chiedeva di indicargli una località isolata sugli Appennini, dove potersi accampare un paio di settimane per fare qualche escursione sui monti. Quasi settantenne, era ancora pieno di vitalità: non si lanciava più col paracadute, però navigava con la barca a vela sul Mare del Nord.
Negli anni Sessanta, in qualità di giovanissimo militante della Giovane Europa, l’organizzazione da lui diretta, ebbi modo di vederlo diverse volte. Lo conobbi a Parma, nel 1964, accanto a un monumento che colpì in maniera particolare la sua sensibilità di “eurafricano”: quello di Vittorio Bottego, l’esploratore del corso del Giuba. Poi lo incontrai in occasione di alcune riunioni della Giovane Europa e in un campeggio sulle Alpi. Nel 1967, alla vigilia dell’aggressione sionista contro l’Egitto e la Siria, fui presente a un’affollata conferenza che egli tenne in una sala di Bologna, dove spiegò perché l’Europa doveva schierarsi a fianco del mondo arabo e contro l’entità sionista. Nel 1968, a Ferrara, partecipai a un convegno di dirigenti della Giovane Europa, nel corso del quale Thiriart sviluppò a tutto campo la linea antimperialista: “Qui in Europa, la sola leva antiamericana è e resterà un nazionalismo europeo ‘di sinistra’ (…) Quello che voglio dire è che all’Europa sarà necessario un nazionalismo di carattere popolare (…) Un nazionalcomunismo europeo avrebbe sollevato un’ondata enorme di entusiasmo. (…) Guevara ha detto che sono necessari molti Vietnam; e aveva ragione. Bisogna trasformare la Palestina in un nuovo Vietnam”. Fu l’ultimo suo discorso che ebbi modo di ascoltare.
Jean-François Thiriart era nato a Bruxelles il 22 marzo 1922 da una famiglia di cultura liberale originaria di Liegi. In gioventù militò attivamente nella Jeune Garde Socialiste Unifiée e nell’Union Socialiste Anti-Fasciste. Per un certo periodo collaborò col professor Kessamier, presidente della società filosofica Fichte Bund, una filiazione del movimento nazionalbolscevico amburghese; poi, assieme ad altri elementi dell’estrema sinistra favorevoli ad un’alleanza del Belgio col Reich nazionalsocialista, aderì all’associazione degli Amis du Grand Reich Allemand. Per questa scelta, nel 1943 fu condannato a morte dai collaboratori belgi degli Angloamericani: la radio inglese inserì il suo nome nella lista di proscrizione che venne comunicata ai résistants con le istruzioni per l’uso. Dopo la “Liberazione”, nei suoi confronti fu applicato un articolo del Codice Penale belga opportunamente rielaborato a Londra nel 1942 dalle marionette belghe degli Atlantici. Trascorse alcuni anni in carcere e, quando uscì, il giudice lo privò del diritto di scrivere.
Nel 1960, all’epoca della decolonizzazione del Congo, Thiriart partecipa alla fondazione del Comité d’Action et de Défense des Belges d’Afrique, che di lì a poco diventa il Mouvement d’Action Civique. In veste di rappresentante di questo organismo, il 4 marzo 1962 Thiriart incontra a Venezia gli esponenti di altri gruppi politici europei; ne esce una dichiarazione comune, in cui i presenti si impegnano a dar vita a “un Partito Nazionale Europeo, centrato sull’idea dell’unità europea, che non accetti la satellizzaz |
Per il popolo, con il popolo - 1935 |
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Scritto da Berto Ricci
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Domenica 09 Maggio 2004 01:00 |
L'invettiva di Berto Ricci contro i residui borghesi, classisti e capitalisti ancora presenti negli interstizi della società fascista  Suburra. Finché il controllore ferroviario avrà un tono coi viaggiatori di prima classe, e un altro tono, leggermente diverso, con quelli di terza; finché l’usciere ministeriale si lascerà impressionare dal tipo “commendatore” e passerà di corsa sotto il naso del tipo a “povero diavolo”, magari dicendo torno subito; finché l’agente municipale sarà cortesissimo e indulgentissimo con l’auto privata, un po’ meno col taxi e quasi punto con quella marmaglia come noi, che osa ancora andare coi suoi piedi; finché il garbo nel chiedere i documenti sarà inversamente proporzionale alla miseria del vestiario; eccetera eccetera eccetera; finché insomma in Italia ci sarà del classismo, anche se fatto di sfumature spesso insensibili agli stessi interessati per lungo allenamento di generazioni; e finché il principal criterio nello stabilire la gerarchia sociale degli individui sarà il denaro o l’apparenza del denaro, secondo l’uso delle società nate dalla rivoluzione borghese, delle società mercantili, apolitiche ed antiguerriere; potremo dire e ripetere che c’è molto da fare per il Fascismo.
Il che poi non è male.
Non è male, a patto che lo si sappia bene
L'Universale
10/2/1935 |
Codice della vita italiana - 1921 |
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Scritto da Giuseppe Prezzolini
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Sabato 08 Maggio 2004 01:00 |
“Che Dante non amasse l’Italia, chi vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come qualunque altro l’ha mai veracemente amata o l’amerà, a flagellarla a sangue, e a mostrarle tutta la sua nudità, si che ne senta vergogna.” Carlo Cattaneo.  Prefazione
Saggio di un codice della vita italiana
Tra la legge scritta e la vita vissuta, tutti sappiamo che bella differenza passa. Lo statuto e i codici che cosa ci dicono di realistico sul nostro Paese? Lo abbiamo imparato, a spese nostre; lo sa la nostra testa, che ha ripetutamente urtato contro quanto ignorava; lo sanno le nostre spalle, che di questa ignoranza han portato il peso! E perché non cerchiamo di togliere ai giovani la parte più grave di tal noviziato? Perché non proviamo ad insegnare loro in che Paese veramente sono nati, quali ostacoli troveranno, quante strade hanno aperte? Ho cercato di esporre in poche formule alcuni degli aspetti realistici della nostra vita e delle consuetudini della gran maggioranza degli Italiani. So bene che si griderà in pubblico al diffamatore, pur riconoscendo in privato la giustezza delle mie osservazioni. Ma appunto perché so tutto questo, non me ne preoccupo tanto. E quanto alle eccezioni riconosco volentieri che ce ne sono. Non è forse questo scritto un’eccezione alla regola, che si potrebbe benissimo aggiungere alle altre innanzi esposte, per cui “certe cose si fanno ma non si dicono”? C’è molta amarezza, in espressioni che han l’aria (soltanto l’aria pur troppo) del paradosso. Amarezza e, qualche volta, disperazione. Quando si vive in Italia, più di una volta accade di domandarsi perché non si prende il primo piroscafo che parte per il nuovo mondo, dove, molto lontani, attraverso il velo della poesia, e senza alcun contatto con i cattivi campioni della madre patria, tutto quello che c’è di bello e di sano può tornare in mente e destar persin nostalgia. Sì, siamo ridotti a questo, qualche volta: a prendere idealmente un piroscafo e guardarla da lontano, questa nostra Italia, per poterla amare davvero… A guardarla come posteri; anzi peggio: come stranieri. Del resto i migliori italiani, da Dante a Mazzini, hanno rivolto aspri rimbrotti ai loro compaesani; e si capisce. Chi ha un ideale di patria, vi paragona la realtà e non può fare a meno di trovarla inferiore; onde il suo sforzo perché la luce di quell’ideale, che è tormento e miglioramento, passi negli altri. Ma non vi passa che attraverso lotte. Chi si contenta delle cose come stanno, non ha bisogno di urtare alcuno; e può distendersi nelle lodi. I dolci educatori, si sa, non sono i migliori. Qui c’è il succo delle mie idee sul mio Paese: vi sono nato, sento di dovervi lavorare. Ma il mio Paese non è disgiunto da un’idea più vasta. Anzitutto, mi sento uomo. E sento subordinato a questo il mio concetto di italiano. Io ho fede nell’Italia piuttosto attraverso un rinnovamento educativo che attraverso uno politico, preferisco un miglioramento del carattere a una modificazione delle istituzioni. Ho più fede negli umili, che nei grandi; in coloro che occupano posizioni secondarie, che in quelli che sono arrivati in alto. Penso che i valori della nostra tradizione hanno bisogno di cambiamenti radicali: che noi teniamo troppo al Rinascimento ed a tuta la tonalità letteraria, enfatica, retorica che vi ha radice. Il mio ideale d’italiani è quello di uomini più pratici, più severi, più colti, più aperti alla visione del grande mondo moderno. Sento che si potrebbe arrivar ad un profondo rivolgimento spirituale in breve tempo: in un paio di generazioni; a patto di sentire la nostra attuale complessiva inferiorità, rispetto ad altri popoli; a patto di una rinunzia rigida a consuetudini che abbassano soprattutto il nostro valore morale e la nostra dignità; a patto di un esame di coscienza purificatore. Ce |
Herman Hendrich: Leben und Werk |
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Scritto da Harm
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Martedì 04 Maggio 2004 01:00 |
Questo libro è la prima monografia completa dedicata all’artista dalla sua morte nel 1931 e cerca di riportare su Hendrich l’attenzione del pubblico.  Questo bel libro è frutto dell’entusiasmo e della passione di una persona. Qualche anno fa, Elke Rohling ebbe l’idea di formare un’organizzazione no-profit per raccogliere e diffondere il lavoro artistico del pittore tedesco Hermann Hendrich e per preservare i suoi templi dell’arte totale per le generazioni future.
Il risultato di questo impegno è stata l’associazione culturale Nibelungenhort che ha prodotto questo libro, un CD dallo stesso titolo e un grosso sforzo per diffondere l’opera di Hendrich. Insieme a Fidus, Franz Stassen, e Ludwig Fahrenkrog, Hermann Hendrich fece parte di quel gruppo di artisti e pittori che furono fortemente ispirati dall’idea wagneriana del Gesamtkunstwerk. Essi condivisero la passione per l’eredità germanica trasmessa dalle fiabe e dalle saghe dell’Edda che influenzò molti movimenti mistici, esoterici ed artistici del tempo. Persero parte a quella temperie culturale che, anche attraverso la pittura simbolista, la letteratura sull’idea della natura mistica, e i movimenti della riforma della vita, cercarono di ricreare un nuovo paganesimo alla fine del 1800. In contrasto con le precise linee Art Nouveau di Stassen, Hendrich scelse una tecnica più espressionista che seppe magistralmente rappresentare leggende e paesaggi impregnati di misticismo. Spesso le sue figure sfumano e divengono parte stessa del paesaggio nella sua inscindibile totalità. Il suo ritratto di Odino nella luce del tramonto degli Dei ci mostra un Dio solo, avvolto dalle tenebre, mentre i fuochi del Ragnarök brillano distanti. In contrasto con i piani grandiosi ma mai realizzati di Fidus e Fahrenkrog per la creazione di templi architettonici, Hendrich riuscì a realizzare le sue idee per dare alla sua arte una sede stabile e pubblica: il Nibelungenhalle di
Königswinter e il Walpurgishalle di Thale sono i due esempi più conosciuti e famosi. Per aumentare la diffusione del libro il prezzo è, per un libro d’arte con molte illustrazioni a colori e bianco e nero, assai contenuto. I testi sono in tedesco ed inglese. Nel volume sono presenti in separati capitoli i progetti architettonici che coinvolsero l’artista, un’esaustiva carrellata sui suoi quadri più famosi, una biografia e bibliografia completa ed un autoritratto biografico scritto dallo stesso artista. Speriamo che la visione di questo libro spinga al Wandrelust verso i templi di Hendrich coloro che volessero rendere omaggio al suo eccezionale lavoro artistico.
Alla fine del XVIII secolo e negli anni seguenti molti circoli artistici furono caratterizzati dall’egemonia di una visione puramente razionalista del mondo che comportava da un lato la rottura e la perdita dei valori religiosi e dall’altra una carenza nella comprensione integrale della realtà. La vita moderna con la sua crescente meccanizzazione, il rapido traformarsi dei valori e degli stili di vita, che si manifestavano anche con la diffusione di nuove concezioni metafisiche e religiose, segnavano dei profondi cambiamenti che erano particolarmente evidenti nell’arte e nella letteratura di quel periodo. Bernahard Juchmann descriveva così questa atmosfera nella sua introduzione del libro di presentazione del “Halle Deutscher Sagenring”: “ L’inquietudine e la frenesia della nostra epoca in cui le forze ferree della meccanizzazione distruggono molti luoghi dell’arte offriamo con le opere di Hendrich un eremo in cui le giovani generazioni possano dedicarsi alla riflessione e alla memoria nella contemplazione.”. Una delle reazioni a questo crescente senso d’incertezza, un senso di minaccia provocato dalle rapide trasformazion,i fu l’interesse per la mistica. Al cambio |
Scritto da Marco Tarchi
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Sabato 01 Maggio 2004 01:00 |
Presentazione del libro martedì 11 Maggio 2004, h. 11.00 Sala Cosseddu (ERSU), Via Trentino, Cagliari  Contro l’americanismo è il titolo di un libro recentemente pubblicato dalla Casa Editrice Laterza, scritto da Marco Tarchi, professore di Scienza Politica all’Università di Firenze.
L’americanismo è una malattia che lentamente sta contagiando le menti italiane ed europee, veicolata dai grandi mezzi di informazione di massa: televisioni e giornali. I mezzi sono differenti, così come sono differenti i messaggi: più sobrio, leggero e apparentemente innocuo il primo -telefilm, supereroi, fiction, programmi di intrattenimento made in Usa costituiscono il nocciolo duro della nostra televisione-, più impegnato, pesante e apparentemente inserito nella pluralità informativa il secondo -gli intellettuali, che dovrebbero filtrare la realtà dalle scorie propagandistiche della politica, al contrario sono i primi che annunciano la lieta novella del gigante americano, tacciando di antiamericanismo chi osa muovere alcuna critica all’immaginario culturale rifacentesi agli Stati Uniti d’America. Il risultato ottenuto è il medesimo per entrambi: mezzi differenti e messaggi differenti si uniscono per colonizzare l’immaginario collettivo. Viene in questo modo preparato il terreno per messaggi scomodi -guerra, morti, interessi economici, imperialismo strisciante- che, grazie al massiccio bombardamento mediatico, divengono la normalità, il lento succedersi delle cose, la prassi. Si fanno guerre -ne è un esempio quella lanciata dalle truppe angloamericane in Iraq- drogando l’opinione pubblica con messaggi non veritieri -armi di distruzione di massa, imminente pericolo per l’occidente, collusioni del governo iracheno con Bin Laden e via discorrendo- e riuscendo a generare nel cittadino medio quella strana sete di sicurezza che solo il Grande Fratello americano può placare.
Scritto da Ansa
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Mercoledì 28 Aprile 2004 01:00 |
Per la cultura occidentale la democrazia e' 'il migliore dei sistemi possibili', tanto che l'Occidente si ritiene in dovere di esportarla, anche con la forza, in paesi con storia, vissuti, istituzioni completamente diversi. Ebbene Massimo Fini si lancia contro questa radicata convinzione in un pamphlet dal sottotitolo 'Manifesto contro la Democrazia'. Il suo punto di partenza e' il noto annuncio del politologo americano Francis Fukuyama, che dopo il crollo del comunismo, nel 1989, proclamo' che la Storia era finita; finita in quanto, caduto 'L'impero del Male' rappresentato dal blocco sovietico, la democrazia poteva trionfare in tutto il mondo e lo scopo della Storia (che era appunto raggiungere il regno luminoso della democrazia universale) era esaurito. Bastarono pochi mesi, un pugno di guerre locali che minacciavano la stabilita' generale, e qualche centinaio di morti per lo piu' civili in varie parti del globo, a far capire a tutti (anche a Fukuyama) che la Storia andava avanti, la solita Storia. Ma questo non poteva cogliere di sorpresa Massimo Fini, che ci spiega come man mano che si svolge il filo della Storia - in particolare negli ultimi due secoli - diventa sempre piu' evidente che la democrazia rappresentativa non solo non rispetta i suoi presupposti e i suoi altisonanti principi, ma non e' assolutamente in grado di farlo ne' mai lo fara'.
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Scritto da Dr Laurence McKeown
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Mercoledì 28 Aprile 2004 01:00 |
Martiri per l'Irlanda. Bobby Sands e gli scioperi della fame  Fratelli Frilli Editori 2004 Genova, 240 pag., 15,50 Euro
Il 5 maggio 1981, nel carcere di Long Kesh a Belfast (Irlanda del Nord), moriva Bobby Sands. Era al suo 66° giorno di sciopero della fame per poter ottenere lo status di prigionieri politici e insieme ad esso vedersi riconosciuti diritti basilari garantiti a qualsiasi essere umano. Nelle settimane successive altri nove detenuti lo seguirono nel suo tragico destino. Lo sciopero della fame del 1981 durò 7 mesi e attirò sull’Irlanda l’attenzione del mondo intero ma non fu quello l’unico nella lunga storia del movimento repubblicano irlandese.
Il libro: Viene ripercorsa la storia degli scioperi della fame attuati in Irlanda da esponenti del movimento repubblicano irlandese. L’analisi della figura di Bobby Sands, leader carismatico del digiuno messo in atto nel 1981 nel carcere di Long Kesh, indica con quanta e quale intensità i concetti di martirio e di sacrificio siano legati alla storia del repubblicanesimo irlandese e alla sua lotta di liberazione dal dominio inglese. Persone ordinarie diventarono, con la loro morte, icone da venerare, figure carismatiche da rispettare e vedere come punti di riferimento da generazioni e generazioni d’irlandesi. Ancora oggi, a più di venti anni dai fatti del 1980/81, gli irlandesi sono emotivamente coinvolti. Entrambe le comunità furono segnate, anche se in maniera diversa, dalle morti dei ragazzi di Long Kesh. Quali ricordi e quali sensazioni suscitano oggi quei fatti? Il tempo lenisce il dolore? È possibile una revisione storica e quindi una rivalutazione non solo delle strategie adottate nella lotta carceraria ma anche dei protagonisti stessi? Perché non è impossibile parlare di mito riferendosi ai protagonisti? Il libro cerca di dare una risposta a tutte queste domande. Non vi è pretesa alcuna di fornire verità assolute ma, semplicemente, di invitare ad una riflessione storica e umana. Le loro storie e quelle di coloro che condivisero con loro la lotta, la detenzione e la sofferenza sono raccontate in questo libro anche attraverso le testimonianze dirette di alcuni dei protagonisti.
Introduzione
Fui arrestato nell’agosto 1976 e in seguito detenuto nei Blocchi H di Long Kesh. Avevo 19 anni e quella era l’età media di quasi tutti i detenuti. Alcuni erano anche più giovani. Eravamo tutti repubblicani irlandesi e alcuni di noi erano volontari dell’esercito repubblicano irlandese, l’IRA. L’estate di quell’anno fu particolarmente calda, cosa insolita per l’Irlanda, e i nostri pensieri erano, per lo più, rivolti a ciò che ci stavamo perdendo all’esterno piuttosto che a quanto ci aspettava dentro il carcere. Non sapevamo ancora, per esempio, che ci saremmo imbarcati in una protesta che sarebbe durata cinque anni, durante la quale saremmo rimasti nudi, vestiti solo di una coperta e che per tre di quei cinque anni avremmo rifiutato persino di lavarci. Ignoravamo anche che dieci di noi sarebbero morti nello sciopero della fame del 1981, il culmine di quella protesta.La nostra protesta era concepita per ottenere il giusto riconoscimento di prigionieri politici; uno status in precedenza concesso a coloro che venivano detenuti in seguito al loro coinvolgimento nel Conflitto e che era stato rimosso, dal governo inglese, nel marzo 1976. Durante il corso di quei cinque anni furono fatti diversi tentativi di mediazione, in particolar modo dal Primate Cattolico d’Irlanda Cardinale Tomás O’Fiaich, che però non riuscirono a produrre nessun effetto utile. Bobby Sa |
Il comunismo gerarchico. L’integralismo fascista della corporazione e della Volksgemeinschaft |
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Scritto da Libreria Ar
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Martedì 27 Aprile 2004 01:00 |
Breve introduzione al libro di Sonia Michelacci, Edizioni di Ar  ...Dopo aver scandito con nettezza i vari passi del fascismo rivoluzionario verso una concezione della proprietà privata che postulava di superare tanto l’individualismo liberale quanto il collettivismo comunista, il libro individua come prima realizzazione coerente e chiara dell’ideale fascista l’ordinamento fondato, con la Socializzazione delle imprese, dalla Repubblica sociale...
(dalla prefazione di Luigi Lombardo Vallauri, Filosofo del Diritto)
...Una delle prime formulazioni di Ugo Spirito sul comunismo gerarchico – da lui identificato con il corporativismo – risale al 1935, nella relazione ‘Corporativismo e libertà’ presentata al Convegno italo-francese di studi corporativi che si tenne a Roma nel maggio di quell’anno. In essa il filosofo aretino così tratteggiava il tipo di collaborazione gerarchica da lui posta a fondamento della nuova società: “Per poter vincere il capitalismo occorre vincerlo tecnicamente e spiritualmente, non con la violenza del numero, ma con la superiorità tecnica di una gerarchia totalitaria in cui i valori umani si differenziano al massimo”...
(dall’introduzione dell’Autrice) |
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