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Storia&sorte
Finis Europae PDF Stampa E-mail
Scritto da Adriano Romualdi   
Sabato 29 Maggio 2004 01:00

La seconda guerra mondiale segna la lotta estrema dell’Europa contro la morte politica e si conclude con la sua lunga, disperata agonia. In essa ogni breve episodio si cristallizza nella memoria dei secoli, ogni figura subisce una stilizzazione eroica, ogni battaglia diventa epopea e mito.

Ogni anno, quando aprile volge alla fine e il vento di primavera impolvera le strade, la rumorosa celebrazione del 25 Aprile ci strappa dagli abituali pensieri per richiamare alla nostra coscienza la tragica fine della guerra. Il crollo politico e spirituale dell’Italia e dell’Europa. In verità nessuna occasione è più propizia per consentirci di valutare adeguatamente l’entità morale della catastrofe: le bandiere alle finestre per celebrare una sconfitta militare, il giubilo concorde del partito russo e di quello americano che, alla distanza di tanti anni, continuano a rappresentare gli interessi dei loro padroni contro l’interesse nazionale europeo, l’apologia e la celebrazione del 25 Aprile ci strappano dagli abituali pensieri e ci portano a quelli del massacro e dell’odio civile.

Ma, al di là dell’agiografia commemorativa, rimane la drammatica importanza dell’anniversario. Poiché la guerra la cui fine si celebra non fu solo guerra civile e mondiale ma la tragedia storica che ha portato alla detronizzazione dell’Europa e ha trasferito le insegne del comando del territorio del nostro continente alla Russia e all’America. Con questa tragedia il tramonto dell’Occidente, profetizzato da Spengler nel 1917, diviene una schiacciante, evidente realtà.

Vi sono epoche nella storia, spesso concluse nel breve giro di mesi o di anni, che ardono da lontano di inestinguibile chiarore, come isolate da un cerchio di luce sull’opaca scena della storia del mondo. Recinti da questa magica cintura di fuoco uomini ed avvenimenti riappaiono con irreale lentezza e ricchezza di particolari come l’estremo profilarsi di costruzioni inghiottite da un incendio che divampa all’orizzonte in una notte serena. Sono le epoche cruciali, quelle in cui l’angelo della storia batte con le sue grandi ali a sollievo o a terrore dei popoli e in cui, nel volgere di pochi, turbinosi eventi, si decidono i destini delle civiltà.

A queste epoche appartiene la seconda guerra mondiale, che segna la lotta estrema dell’Europa contro la morte politica e si conclude con la sua lunga, disperata agonia. In essa ogni breve episodio si cristallizza nella memoria dei secoli, ogni figura subisce una stilizzazione eroica, ogni battaglia diventa epopea e mito.

L’agonia dell’Europa è lunga. Essa incomincia all’alba del 6 giugno 1944 quando il mare di Normandia, d’un tratto, nereggia di navi. È un’armata navale immensa e paurosa, la più grande flotta di tutti i tempi radunata per rovesciare sulle difese del Vallo Occidentale una marea di uomini e di armi. L’America, con le sue forze intatte ed il suo poderoso potenziale industriale scaglia centinaia di migliaia di soldati contro i bastioni della madrepatria europea. E’ la Nemesi storica che si volge contro il vecchio continente colpevole di non aver saputo garantire adeguate possibilità di vita a milioni di suoi figli e di averli lasciati fuggire oltre l’Oceano ad alimentare la forza della grande repubblica materialistica dei deracinés. La lotta divampa crudele sul bianco nastro costiero della penisola di Cotentin. Ogni minuto, ogni ora rimbomba di paurosi boati, di schianti mortali: è il giorno più lungo della guerra, come Rommel lo aveva chiamato. La difesa è impari ma disperata: «Gli uomini della SS – racconterà un superstite di parte americana – si gettavano sui nostri carri armati come lupi sulla preda. Ci costringevano ad ucciderli anche quando ci saremmo accontentati di prenderli prigionieri». È il momento decisivo della guerra: se gli Americani vengono ributtati a mare, se le difese del Westwall tengono, la grande invasione del continente potrà essere ritentata tra due, tre anni. In quel tempo tutto potrebbe cambiare. Ma la schiacciante superiorità delle forze e il totale dominio dell’aria decidono la lotta.

Se il pensiero ripercorre quegli avvenimenti si fissa su alcuni os

 
La più grande campagna di distruzione di libri di tutta la storia PDF Stampa E-mail
Scritto da Martin Lüders   
Venerdì 28 Maggio 2004 01:00

E’ pratica comune enfatizzare la vastità della messa al bando dei libri durante il Nazionalsocialismo senza mai menzionare la ben peggiore opera di distruzione e proibizione di libri intrapresa dalle potenze vincitrici dopo la sconfitta tedesca nella seconda guerra mondiale

Dopo che Adolf Hitler, come capo del partito di maggioranza relativa, aveva assunto l’incarico di formare il nuovo governo, gli studenti tedeschi, ripetendo le gesta della distruzione della letteratura papista fatta da Martin Lutero e quella dell’arsione della letteratura reazionaria per opera dei rivoluzionari al Wartburg nel 1817, bruciarono pubblicamente i libri pervasi da “spirito anti-germanico”. Questi erano atti dimostrativi che non avevano nulla a che vedere con la messa al bando o la proibizione dei libri. I bandi furono emanati per la prima volta, in modo non coordinato, da vari uffici governativi fino a che il Ministro della Pubblica Educazione e della Propaganda, sotto il controllo di Joseph Goebbels, istituì l’unico sistema di messa al bando dei libri attraverso la Camera delle Pubblicazioni del Reich. Queste liste nere di libri della Camera delle Pubblicazioni contenevano anche i libri segnalati alla polizia come osceni od offensivi durante la Repubblica di Weimar, e furono progressivamente ridotte di numero. Al contrario si inserirono nelle liste le pubblicazioni prodotte da coloro che erano fuggiti all’estero (“traditori del popolo”), da marxisti, e autori sovietici. Nel 1939 quelli a “soggetto pornografico” costituivano solo il 10% dei libri messi al bando. Secondo l’essenziale lavoro sulla politica letteraria del Nazionalsocialismo (Nationalsozialistische Literaturpolitik di Dietrich Strothmann Bonn, 1985, Edizioni Bouvier; la prima edizione apparve nel 1960), circa 12.500 libri furono messi al bando nel corso dei dodici anni del regime Nazionalsocialista in Germania.

Questo dato viene messo in dubbio nell’approfondito studio sulla proibizione degli “scritti nocivi e indesiderabili” nel Terzo Reich (Die Indizierung 'schädlichen und unerwünschten Schrifttums' im Dritten Reich), pubblicato nel 1971, vol. XI degli Archiv für Geschichte des Buchwesens (Buchhändlervereinigung, Frankfurt/Main, prima edizione 1968) da Dietrich Aigner che afferma, sulla base dei risultati delle sue ricerche, che questa cifra è “abbondantemente sovrastimata”. Egli ha scoperto che, dalla fine del 1938 la lista dei libri messi al bando della Camera delle Pubblicazioni del Reich comprendeva 4.175 titoli di singoli e 565 bandi comprensivi vale a dire per tutta l’opera di 565 autori. Questo numero fu fortemente incrementato nel 1941 quando iniziò la guerra contro l’Unione Sovietica e 337 ulteriori bandi comprensivi furono emanati nei confronti di letterati in qualche modo legati al regime sovietico.

E’ pratica comune, nelle manifestazioni e sulle pubblicazioni, enfatizzare la vastità della messa al bando dei libri durante il Nazionalsocialismo senza mai menzionare l’opera di distruzione e proibizione di libri intrapresa dalle potenze vincitrici dopo la sconfitta tedesca nella seconda guerra mondiale. Opera che fu compiuta, sotto ogni aspetto, in maniera molto più rigorosa ed estesa rispetto alla precedente. Nel 1989, quando l’editrice "Börsenblatt für den deutschen Buchhandel" di Francoforte dedicò molti saggi all’argomento “storia della censura sui libri”, la descrizione si interrompeva col maggio 1945 e riprendeva con la nascita della Repubblica Federale Tedesca sorvolando su quanto era successo in quegli anni. L’unica cosa detta era “un altro enorme apparato di controllo fu introdotto sulla scena dopo la guerra”. Nient’altro. Nessun altro dettaglio era fornito. E non sarebbe stato difficile approfondire i fatti. Seguendo l’ordine del 15 settembre del 1945, dato dal Capo Supremo dell’Amministrazione Militare Sovietica in Germania, le potenze alleate istituirono una Commissione di Controllo "Ordinance No. 4", solo pochi mesi dopo, il 13 maggio 1946 “concernente la confisca della letteratura e delle pubblicazi
 
Le SS in Tibet PDF Stampa E-mail
Scritto da Claudio Mutti   
Venerdì 28 Maggio 2004 01:00

Storia della Deutsches Ahnenerbe e della celebre spedizione in Tibet del 1938. ad opera del capo della spedizione, lo Hauptsturmführer SS dr. Ernst Schäfer.

La Deutsches AhnenerbeStudiengesellschaft für Geistesurgeschichte ("Eredità tedesca degli antenati – Società di studi per la preistoria dello spirito“) sorse il 1 luglio 1935 per iniziativa del Reichsführer SS Heinrich Himmler, il quale concepì l’idea di dar vita a tale istituzione in seguito alla lettura dell’opera dell’olandese Herman Wirth 1, da lui personalmente incontrato un anno prima. Della nuova Società di studi fu segretario generale, fino alla fine, l’ Obersturmbannführer SS Wolfram Sievers, che sarà processato a Norimberga e impiccato. La sede della Società era a Berlin-Dahlem, Pücklerstrasse n. 16, mentre la fondazione che la sosteneva economicamente si trovava al n. 28 della Wilhelmstrasse.

Principale organo di stampa della Deutsches Ahnenerbe, che pubblicava libri e periodici, fu la rivista “Germanen”.

L’ Ahnenerbe nacque sotto il patronato congiunto delle SS e del Ministero dell’Agricoltura: oltre a Himmler, era entrato in rapporto col professore olandese anche il ministro Richard Walther Darré, il quale avvertiva pure lui l’esigenza di un’istituzione scientifica che fornisse solide basi alla dottrina del Partito. Ma la collaborazione tra Himmler e Darré non sarebbe durata a lungo, data la loro divergenza di vedute circa l’ Idealtypus germanico, che per il ministro dell’Agricoltura (e per lo stesso Wirth) era rappresentato dal contadino, mentre per il capo delle SS si identificava con la figura del guerriero. Al professor Wirth, che lasciò la Ahnenerbe nel febbraio 1937, subentrò come presidente della Società Walther Wüst, rettore dell’Università di Monaco e membro dell’Accademia delle Scienze, il quale era affiancato da uno stretto collaboratore di Himmler, Bruno Galke. Nel 1943 Wüst diede le dimissioni; ciò non gli evitò di essere condannato a morte a Norimberga, anche se la pena capitale gli venne poi commutata.

L’unica menzione pubblica fatta da Himmler circa la Ahnenerbe si trova in un discorso del gennaio 1937. Parlando del Servizio razziale delle SS, il Rasse und Siedlungshauptamt, Himmler disse che “esso ha anche l’incarico di effettuare ricerche scientifiche in collaborazione con l’Istituto Ahnenerbe. Così – proseguì il Reichsführer SS – ad Altchristenburg abbiamo scoperto una fortezza su una superficie di trenta iugeri. (…) Dal punto di vista scientifico e dottrinale, il nostro compito consiste nello studiare queste cose senza falsificarle, in maniera obiettiva. Le scoperte fatte dall’Istituto Ahnenerbe ad Altchristenburg hanno rivelato l’esistenza di sette strati (…) Tutte queste cose ci interessano, perché rivestono la massima importanza nella nostra lotta ideale e politica”. E fu lo stesso Himmler, stando almeno a quanto dichiarato da Sievers a Norimberga, a riassumere lapidariamente il programma generale delle attività demandate alla Ahnenerbe, con queste parole: “Raum, Geist, Tod und Erbe des nordrassischen Indogermanentums” (“Spazio, spirito, morte ed eredità del mondo indogermanico di razza nordica”).

In altri termini, la Società aveva il compito di effettuare ricerche sullo spirito ariano, di salvare e rinvigorire le tradizioni popolari, di diffondere tra la popolazione la cultura tradizionale germanica. Sorsero quindi in seno alla Ahnenerbe una cinquantina di dipartimenti, ciascuno dei quali si dedicava a un particolare settore d’indagine: i canti tradizionali, le

 
L’AMBLIMORO ANTIFASCISTA PDF Stampa E-mail
Scritto da Claudio Mutti   
Venerdì 28 Maggio 2004 01:00

“Il peggior prodotto del fascismo è stato l’antifascismo democratico” - Amadeo Bordiga

L’ossimoro, figura retorica che consiste nell’accostare in un’unica locuzione due parole esprimenti concetti contrari, è, come rivela l’etimo greco, una “acuta insensatezza” (oxy moron). Per esemplificare l’ossimoro, il Dizionario della lingua italiana di Devoto-Oli del 2000-2001 cita espressioni quali “ghiaccio bollente” o “convergenze parallele” (anche se quest’ultima potrebbe essere definita, più particolarmente, un… ossimoroteo) .

Poi, però, vi sono anche dei casi in cui l’accostamento di due termini dal significato contrastante configura, a differenza dell’ossimoro, una insensatezza che non è affatto acuta, ma è, invece, decisamente ottusa, sicché un sintagma di tal genere lo potremmo battezzare, se ci fosse consentito l’ardire, con un neologismo di nostro conio: amblimoro (ambly moron), “ottusa insensatezza”.

Così alla categoria degli amblimori si potrebbero assegnare sintagmi quali “antifascismo antimperialista”, “antimperialismo antifascista”, “antifascismo e antimperialismo”, “antifascista e antimperialista” et similia.

A parte gli scherzi, espressioni come queste sono circolate di recente, dopo che venne lanciata l’idea di organizzare, a sostegno dell’Iraq, una manifestazione senza pregiudiziali ideologiche, dalla quale nessuno doveva essere escluso sulla base del suo particolare orientamento politico.

A taluni però parve scandaloso che non venisse fissata, per la suddetta iniziativa, la condizione indispensabile e necessaria della professione di fede antifascista da parte degli aderenti, per cui si cominciò a dire che una manifestazione politicamente ortodossa a sostegno dell’Iraq doveva essere, al contempo, “antimperialista e antifascista”.

Che l’accostamento dei due concetti configuri una contradictio in adiectis, per noi è lampante. Ma, a quanto pare, per molti non lo è affatto e quindi è necessario dimostrarlo, dati alla mano.

Già il giovane Marx aveva definito gli Stati Uniti come il “paese dell’emancipazione politica compiuta”, ovvero come “l’esempio più perfetto di Stato moderno”, capace di assicurare il dominio della borghesia senza escludere le altre classi dalla fruizione dei diritti politici. Un critico marxis

 
IMPERATORE E SULTANO PDF Stampa E-mail
Scritto da Claudio Mutti   
Mercoledì 26 Maggio 2004 01:00

La teocrazia imperiale di Federico II

Nel testo del diploma in cui è motivata la concessione della Medaglia d'Oro della Resistenza al Comune di Parma si possono leggere le seguenti parole: "Fiere delle secolari tradizioni della vittoria sulle orde di Federico imperatore, le novelle schiere partigiane rinnovavano l'epopea vincendo per la seconda volta i barbari nepoti oppressori delle libere contrade d'Italia..." Testuale.

Ha un bel dire il buon Franco Cardini, in un suo scritto su Federico II, che bisogna tenersi lontano dalle sirene devianti dell' "attualizzazione" e dell' "inattualità". Per circa due secoli una certa "storia patria" confezionata ad usum Delphini ha cercato di propinare a generazioni di Italiani una vera e propria falsificazione: quella secondo cui la ribellione antimperiale dei Comuni avrebbe rappresentato l'alba della coscienza nazionale e avrebbe costituito il primo tentativo dell'Italia per spezzare il giogo impostoci dal "secolare nemico" tedesco. Non c'è da stupirsi più di quel tanto, dunque, se colui che Dante chiamò "ultimo imperadore de li Romani" (Conv. IV, 3, 6) è diventato, per gli aedi dell'epos resistenziale, il capo di un'orda barbarica; così come non c'è da stupirsi più di quel tanto per la popolarità conosciuta negli ultimi anni dalla figura (più leggendaria che storica) di Alberto da Giussano.

Ma, al di là delle "attualizzazioni" propagandistiche e demagogiche, vogliamo chiederci quale sia la realtà di questo grande Inattuale, il cui ottavo centenario è venuto a coincidere, qualche anno fa, con il centocinquantenario di un altro Inattuale, un altro Federico: Friedrich Nietzsche, che in una sua celebre pagina definì Federico II "grande spirito libero, genio tra gl'imperatori".

Cerchiamo allora di gettare un rapido sguardo sullo scenario storico e di

 
UNA VITA PER LA PALESTINA PDF Stampa E-mail
Scritto da Claudio Mutti   
Mercoledì 26 Maggio 2004 01:00

Come il Gran Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, mobilitò le forze del mondo islamico a fianco dell’Europa.

All'albergo Palace di Gedda, dove nel 1964 alloggiò per qualche giorno prima di compiere il Pellegrinaggio alla Mecca, Malcolm X fu testimone degli affettuosi omaggi di cui era destinatario un altro pellegrino, suo vicino di stanza. "Una folla gli si raccolse intorno per baciargli la mano -scrive il capo dei Black Muslims nella sua Autobiografia- (...) Più tardi, nell'albergo, avrei avuto occasione di parlare con lui per una mezz'ora. Era un uomo di grande dignità, dai modi molto cordiali, al corrente su tutte le questioni internazionali, compresi gli ultimi sviluppi della situazione americana"1. Quell'uomo era al-Hâj Muhammad Amîn al-Husaynî, Gran Muftì di Gerusalemme. Ventitré anni prima di Malcolm X, era stato Adolf Hitler a parlarne in maniera ammirata, sottolineando la nobiltà della sua figura e la "superiorità della sua intelligenza"2 e concedendogli un privilegio mai concesso a nessuno: lo ospitò nel Palazzo Imperiale di Berlino e diede disposizioni affinché sull'edificio la bandiera della Palestina sventolasse più in alto di quella del Reich.

Muhammad Amîn al-Husaynî era nato nel 1897 a Gerusalemme. La famiglia di discendenti del Profeta di cui era originario annoverava tra i propri membri tutti quegli esperti di diritto sacro che negli ultimi due secoli avevano ricoperto la carica di muftì nella città santa. Compiuti i primi studi in Palestina, all'età di sedici anni Muhammad Amîn frequentò l'università islamica dell'Azhar, al Cairo, dove fu tra gli animatori e gli organizzatori del movimento antibritannico. Dopo la prima guerra mondiale, nel corso della quale fu ufficiale nella 46a divisione dell'esercito ottomano, diventò l'ispiratore della lotta dei Palestinesi contro l'occupazione inglese e l'immigrazione sionista. Sfuggito alla polizia militare britannica che era andata ad arrestarlo, riparò in Transgiordania, dove proseguì nella sua attività rifornendo i Palestinesi di armi e munizioni e guadagnandosi una condanna in contumacia a dieci anni di carcere. Diventato Gran Muftì di Gerusalemme e presidente del Supremo Consiglio Islamico, al-Husaynî intensificò la lotta organizzando le sollevazioni del 1929 e del 1936, che videro i Palestinesi insorgere contro la presenza anglo-sionista. Successivamente continuò l'azione nella Siria sottoposta al controllo francese; poi, nel 1939, passò in Iraq.

 
Anni di piombo: Franceschini affonda Feltrinelli PDF Stampa E-mail
Scritto da dagospia   
Mercoledì 26 Maggio 2004 01:00

Giangiacomo Feltrinelli era l’uomo di collegamento tra il vertice delle Brigate rosse e i servizi segreti dell’Est comunista. Lo rivela Alberto Franceschini, fondatore delle Br, in Che cosa sono le Br, la lunga intervista concessa a Giovanni Fasanella e pubblicata dalla Rizzoli.

Giangiacomo Feltrinelli era l’uomo di collegamento tra il vertice delle Brigate rosse e i servizi segreti dell’Est comunista. Lo rivela Alberto Franceschini, fondatore delle Br, in Che cosa sono le Br, la lunga intervista concessa a Giovanni Fasanella e pubblicata dalla Rizzoli. Ecco un brano tratto dal capitolo intitolato Osvaldo, dedicato ai rapporti tra i brigatisti e l’editore milanese. (…) Quindi fu Curcio a presentarle Feltrinelli: quando e dove? Lo incontrai per la prima volta dopo la rottura con Simioni, a Milano. Lui non sapeva chi ero io, ma in quell’occasione ebbi la conferma che con Curcio, invece, si conoscevano benissimo. Dopo quel primo incontro, lo vide ancora? Molte altre volte. Con quale frequenza? Almeno una volta al mese. In qualche modo il nostro rapporto era stato istituzionalizzato. Dove avvenivano gli incontri con lui? Per gli appuntamenti avevamo un luogo fisso, nei giardini del castello Sforzesco di Milano. C’era una panchina, era la nostra panchina: ci vedevamo sempre lì. Era anche lui clandestino? Sì, si faceva chiamare Osvaldo. Aveva già fondato i Gap ed era passato alla clandestinità subito dopo la strage di piazza Fontana. Lui era convinto che i fascisti stessero organizzando un colpo di stato, e che la svolta berlingueriana disarmasse il Pci di fronte al pericolo di destra. Le prime volte, al castello Sforzesco, mi ci portava Renato. Poi lo incontrai anche da solo. Gli appuntamenti come venivano fissati? Ci si vedeva, poniamo, ogni mercoledì alle 20. E ogni volta ci si dava un appuntamento per il mercoledì successivo, alla stessa ora. Se uno saltava l’appuntamento, l’altro sapeva che doveva ripresentarsi la settimana dopo, lo stesso giorno, alla stessa ora. Non potevamo comunicare in nessun altro modo. Le regole della clandestinità le decideva lui, Feltrinelli, ed esigeva che le rispettassimo in modo rigoroso. Ricordo che Renato, ogni volta, commentava: che palle! Noi sapevamo benissimo chi era, ma dovevamo sempre far finta di non conoscerlo, anche se intorno a noi non c’era anima viva. Guai a chiamarlo Giangiacomo o Feltrinelli. Dovevamo chiamarlo Osvaldo. Come si svolgevano i vostri incontri clandestini? Lui in genere arrivava in anticipo. Ci si scambiava informazioni, noi gli raccontavamo della nostra attività e lui ci raccontava della sua. E poi si parlava delle cose che si potevano fare insieme. (…) Dunque, Feltrinelli era un “uomo di Cuba”, come amava presentarsi nei colloqui con voi, ed era alleato del “campo socialista”. Inoltre, aveva casa a Praga e un castello nelle foreste austriache, una sorta di autostrada naturale su cui scorrevano liberamente i suoi movimenti verso la Cecoslovacchia... E’ così, era quello che lui stesso ci raccontava. Vi sfiorava qualche volta il sospetto che potesse essere un uomo dei servizi segreti dell’Est? Una spia? Qualche volta sì, ci veniva il dubbio. Ma finivamo sempre per escludere un’eventualità del genere: il ruolo di spia ci sembrava troppo riduttivo, conoscendo lo spessore intellettuale del personaggio. Non una spia, nel senso classico del termine almeno. Ma proprio per la sua levatura, poteva essere un importante “agente d’influenza” nell’Europa occidentale. Aveva una delle case editrici più prestigiose d’Italia, attraverso la quale costruiva rapporti con la crema della cultura mondiale. E poi aveva un “sacco di soldi”, come diceva lei, con cui finanziava giornali e organizzazioni rivluzionarie. Questo é possibile, non mi sentirei di escluderlo. Certamente era un uomo dotato di una notevole autonomia intellettuale, ma al tempo stesso con rapporti strettissimi con i paesi dell’Est e al centro di una vastissima rete di relazioni internazionali. Caratteristiche che ne potevano fare certamente un “agente di influenza”, in un contesto anche più ampio di quello italiano. La dimensione internazionale del personaggio, diceva, era la caratteristica che vi interessava di più. Perché? Come ho già detto, i suoi ragionamenti sul blocco socialista non ci convince
 
Ottantanove anni fa l’Italia entrava in guerra PDF Stampa E-mail
Scritto da esercito.difesa.it   
Martedì 25 Maggio 2004 01:00

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale vide l'Esercito Italiano entrare in campo il 24 maggio 1915 con l'avanzata oltre il confine. Quella guerra segnò l’avvio di un’era nuova. Da essa, dal socialismo di trincea, dall’arditismo, nasceva la Rivoluzione delle Camicie Nere.

Lo scoppio della 1" Guerra Mondiale vide l'Esercito Italiano entrare in campo il 24 maggio 1915 con l'avanzata oltre il confine.
L'Esercito di fronte alla terribile prova decuplicò gli effettivi, potenziò l'arma aerea, creò corpi speciali, introdusse definitivamente il mezzo meccanico nei suoi ranghi.
Lo sforzo organizzativo fu davvero imponente sia nel campo operativo che logistico. La massa dei mobilitati da gestire in toto, mise a dura prova lo strumento che reagì a questa improvvisa crescita.
Gli anni di guerra fino a Caporetto videro l'Isonzo protagonista delle battaglie; i primi successi di rilievo furono proprio della 6" battaglia dell'Isonzo, che portò nell'estate del 1916 alla conquista di Gorizia. La 12" ed ultima battaglia segnò, invece, la sconfitta di Caporetto nell'ottobre 1917.
Le eroiche battaglie d'arresto sul Piave e sul Grappa (10 novembre - 4 dicembre) tamponarono la falla e nel 1918 il Piave (15-24 giugno) e Vittorio Veneto (24 ottobre - 4 novembre) segnarono la definitiva vittoria.

Durante il 1° conflitto, l'Esercito Italiano fu impiegato anche su fronti esteri. Fu la Francia con il II Corpo d'Armata che combatte valorosamente a Bligny (15-23 luglio) ed allo Chemin des Dames (10-12 ottobre 1918). In Albania e in Macedonia le truppe italiane occuparono Durazzo (29 dicembre 1915), Monastir (18 novembre 1916) e vinsero la battaglia di Malakastra (6-9 luglio 1918).

Aridi dati statistici della grande guerra si possono riassumere in oltre 4.000.000 di mobilitati, circa 600.000 caduti e 1.500.000 di feriti e invalidi

 
Montecassino: commemorato il sessantennale della battaglia PDF Stampa E-mail
Scritto da noreporter   
Sabato 22 Maggio 2004 01:00

A Bracciano, il 21 sera, è stata consegnata una targa di ringraziamento ai combattenti tedeschi. Poi si è tenuta una serata multimediale Pavolini.

60 anniversario della battaglia di Montecassino. 
Gli italiani riconoscenti ai soldati tedeschi che difesero la nostra patria dall’invasore. 
Questo si può leggere in una targa perfettamente bilingue che è stata consegnata ai 
Reduci tedeschi di Montecassino. 
La serata, a Bracciano, è proseguita con un documentario storico su Alessandro Pavolini.
 
E’ saggio paragonare le sofferenze dei palestinesi con l’«Olocausto» ebraico? PDF Stampa E-mail
Scritto da Noreporter.org   
Giovedì 20 Maggio 2004 01:00

Qual è il rapporto tra «Olocausto» e «Questione palestinese»? Un autore giordano è persuaso della loro intima connessione e, rivendicando il diritto alla libertà di ricerca storica, non lesina bacchettate ai filo-palestinesi occidentali, colpevoli di non aggiornare il loro apparato argomentativo...

La scorsa settimana [l'Autore scrive il27 aprile, n.d.t.] è trascorso l’anniversario dell’«Olocausto» ebraico, celebrato dagli ebrei per ricordare al mondo le pretese atrocità commesse contro di loro dal Nazismo tedesco; atrocità di vario tipo senza alcuna base scientifica, come hanno dimostrato gli studiosi e gli storici revisionisti occidentali, i quali vengono sottoposti ad una persecuzione senza pari a causa delle loro ricerche. Cosicché questa ‘Bricconata’ [l’Autore usa un gioco di parole sostituendo la hâ’ di ‘mihraqa’=olocausto con la khâ’, e il risultato è ‘makhraqa’=bricconata, n.d.t.] resta al di sopra della critica, affinché il movimento sionista ne tragga un utile dal punto di vista politico, mediatico e finanziario. Per saperne di più sulla critica scientifica delle leggende sull’«Olocausto» ebraico e i vantaggi che ne ricava il movimento sionista, potete andare al seguente indirizzo internet: http://www.freearabvoice.org/arabi/kuttab/alMuarakhuna/index.htm

Nel corso degli anni passati sono emerse tra gli arabi tre tendenze nel trattare l’argomento dell’«Olocausto». La prima ammette l’«Olocausto» e se ne fa propagandista: è la tendenza di Edward Said e dei ‘Liberal arabi’; la seconda invita ad ignorarlo, considerando che noi arabi non abbiamo con esso alcun rapporto: è questa la tendenza anche della maggior parte dei sostenitori della «questione palestinese» in Occidente; la terza tendenza invita invece a confutarlo, poiché lo reputa un insieme di leggende fabbricate per motivi politico-ideologici che si ricollegano direttamente al conflitto sionista-palestinese e al potere della lobby ebraica mondiale.

Tuttavia, per la tendenza che riconosce la ‘Bricconata’ (sia che le faccia propaganda o che se ne disinteressi) il problema è che le leggende sull’«Olocausto», girando attorno all’unicità delle sofferenze degli ebrei, s’insinuano ad un livello tale che le altre sofferenze diventano insignificanti. Con il risultato che, accettando ciò, la «questione palestinese» viene resa un evento effimero, senza valore di fronte agli orrori dell’imparagonabile «Olocausto» di cui tutto il mondo porta la responsabilità a causa del presunto «antisemitismo». E il riconoscimento dell’«Olocausto» è il fulcro del riconoscimento culturale del diritto dello Stato del nemico di esistere quale rifugio per gli ebrei dall’«antisemitismo» nel mondo. Per questo, se riusciranno a condurre a termine quel che desiderano, gli americani lo introdurranno nei nostri programmi scolastici.

 
CORNELIU CODREANU E L' ITALIA PDF Stampa E-mail
Scritto da Claudio Mutti   
Martedì 18 Maggio 2004 01:00

Il rapporto di Corneliu Codreanu con l'Italia ha inizio con un singolare episodio; ce lo raccontò la vedova del Capitano, per mostrarci come spesso il marito avesse presentimenti e ispirazioni tutt'altro che fallaci.

Fu nel 1927, quando Codreanu si trovava nei pressi di Grenoble e gli giunse la notizia che in Romania si sarebbero svolte elezioni parziali; decise allora di accogliere l'invito a tornare in patria per parteciparvi e partì immediatamente dalla Francia. Per prendere il treno che lo avrebbe portato in Romania, dovette fermarsi in Italia, a Milano. Qui, avendo davanti a sé l'intera giornata, deposita il bagaglio alla stazione centrale e va alla ricerca di un barbiere; ma, al momento di pagare, non trova più il portafogli, dove c'erano i soldi e il biglietto per Bucarest. Si reca allora al consolato romeno (all'epoca a Milano ce n'era uno), ma gli viene negato qualsiasi aiuto. Ritorna alla stazione, si ferma sul fianco dell'edificio e resta lì per un po' a guardare i facchini che lavorano. Poi posa la mano sulla spalla di uno di loro e gli chiede se per caso non abbia trovato un portafogli. Proprio quell'uomo, qualche ora prima, ha effettivamente rinvenuto un portafogli e lo ha consegnato alla polizia ferroviaria; è appunto quello di Codreanu, il quale può rientrarne in possesso.

Un altro curioso episodio capitò a due o tre italiani che erano andati a Bucarest per incontrare il Capitano della Guardia di Ferro. "Giornalisti, probabilmente" - diceva la vedova, Elena Codreanu, la quale ricordava che il fatto avvenne nei primi mesi del 1938. In quel periodo Codreanu ricevette Virgilio Lilli (che scrisse poi un lungo articolo per "La Lettura"), Virginio Gayda del "Giornale d'Italia", Francesco Maratea del "Messaggero" e Julius Evola, che rievocò il suo colloquio col Capitano su diversi quotidiani e periodici. Orbene, i visitatori giunti dall'Italia capitarono alla Casa Verde un mercoledì o un venerdì, cioè in uno dei due giorni della settimana che i legionari consacravano al "digiuno nero": totale astinenza da cibo, bevanda e fumo fino al tramonto. O forse era un martedì, altra giornata nella quale spesso Codreanu digiunava. In ogni caso, quest'ultimo intrattenne nel proprio ufficio i giornalisti, finché, al tramonto, disse alla moglie di apparecchiare la tavola: gli italiani sarebbero stati suoi ospiti. La povera signora si spaventò, perché avevano soltanto un piatto di fagiolini, con cui Codreanu avrebbe interrotto il digiuno, e lei dovette ingegnarsi a farlo bastare per tutti. "Ma quegli italiani - raccontava divertita la vedova del Capitano rievocando l'episodio - non la smettevano più di manifestare il loro entusiasmo per il cibo e di elogiare la cena!"

In quello stesso periodo, il 21 febbraio 1938 per l'esattezza, venne reso noto il progetto della nuova costituzione romena, che comportava la dittatura personale del monarca; allora Corneliu Codreanu sciolse il partito legionario Totul pentru Tara e annunciò di voler partire per Roma, dove si sarebbe occupato dell'edizione italiana del suo libro.

Che tale questione stesse particolarmente a cuore al Capitano, è testimoniato da quattro lettere inedite che egli scrisse tra il '37 e il '38 al professor Leon Zopa, capo del cuib ("nido", cioè sezione) fondato a Roma nel settembre 1937 e denominato "Dacia".

 

 
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