sabato 20 Luglio 2024

Luisa Ferida

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Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farnè, era di Castel San Pietro. La sua storia mai narrata, tenuta nascosta dai miei paesani mi ha sempre affascinata e incuriosita. Era nata il 18 marzo 1914, nella fragranza della terra emiliana, ai confini con la Romagna. Marco Innocenti, giornalista de Il Sole 24 Ore, la descrive come una ragazza stupenda. Bruna, impacciata, focosa e “bella da morire”. Dice: “Aveva stampato sul viso un broncio accattivante, che portò sempre con sé, nella sua breve vita. Gli occhi pungenti da zingara, gli zigomi alti, i capelli color carbone, il corpo splendido, il portamento altero. In lei c’era qualcosa di erotico, di torbido e di felino, una sensualità, una rotonda carnalità da bellezza popolana, che conquistò tutti gli italiani di allora”. Divenne uno dei volti più celebri del cinema italiano negli anni ‘30-’40, protagonista assoluta dell’epopea dei “telefoni bianchi”. Durante l’estate del 1939 la bella Luisa conobbe Osvaldo Valenti, altro divo del cinema dell’epoca. Si erano incontrati in uno dei più eleganti ristoranti romani, dove cenarono insieme. Di lui si dice che fosse eccentrico, sfacciato, esibizionista, cocainomane, strenuo affabulatore, eterno vagabondo, impenitente sciupa femmine. Lei conosceva già Valenti, come uno degli attori più quotati del momento. Insolente e gentiluomo a un tempo, aveva tratti fini, da gran signore, che sapevano diventare arroganti, nei ruoli del “cattivo” dello schermo. È ancora Innocenti che ne traccia un profilo preciso: “Sempre con un leggero sorriso ironico sulle labbra, amava il capriccio, la spavalderia, la provocazione, la trasgressione, l’avventura. Vivere alla giornata, senza perché e senza guardare al domani.” Luisa, ancora così semplice, pura, ingenua, se ne innamorò all’istante come l’eroina creata dalla fantasia di un romanziere che l’aveva predestinata per lui. Il loro fu un amore saldo e intenso. Osvaldo le insegnò tutto. Ad amare i libri, le feste e forse anche la cocaina, e le trasmise anche la sua inquietudine. Lei lo seguì sempre, ovunque, non lo lasciò mai per non perderlo, prigioniera della sua personalità, un’unione esaltante che li fece vivere un grande amore, ma che li condusse alla morte. Condivisero gioie e dolori, piaceri e rinunce, ma vissero sempre insieme, sempre uniti. Insieme ed uniti affrontarono anche le sorti dell’Italia a seguito del tradimento dell’8 settembre.
Valenti, che fino ad allora non aveva mai avuto incarichi nella compagine fascista, si arruolò volontariamente nella Repubblica Sociale Italiana. Nel ‘44 fu tenente della Xª Flottiglia MAS. Osvaldo, forse non era mai stato nemmeno un vero fascista, ma si schierò con la Repubblica di Mussolini a modo suo, da guascone qual era, che amava il rischio e Luisa lo seguì, come sempre, incapace di fermarsi prima che fosse troppo tardi. In quel periodo la coppia conobbe Pietro Koch e iniziò a frequentare Villa Triste a Milano, dove erano interrogati i partigiani catturati. Osvaldo e Luisa vennero accusati di connivenza con Koch e i suoi metodi. La loro partecipazione però non fu mai accertata. Nulla di certo, nulla di dimostrato, solo congetture e trame vigliacche, sufficienti per condannarli a morte. Osvaldo e Luisa recitavano ancora, ma il copione stavolta, fu loro fatale.
Il 10 aprile del 1945 Valenti, forse per aver salva la vita e, soprattutto, quella di Luisa che aspettava un bambino, (la coppia aveva già concepito un figlio, morto purtroppo poco dopo la nascita), decise di consegnarsi spontaneamente ai partigiani. Si rifugiò in casa di Nino Pulejo, appartenente alle Brigate Matteotti, il quale affidò le due celebrità al comandante Marozin della Divisione Pasubio, (noto per i crimini della alta valle del Chiampo dai quali venne assolto dopo 15 anni perché la Magistratura riconobbe che erano stati commessi, ma “per motivi di lotta politica contro il nazi-fascismo”.) Il 21 aprile Marozin incontrò Sandro Pertini il quale, avendo avuta notizia della prigionia di Valenti, gli ordinò lapidario: “fucilali e non perdere tempo”. Questo fu dichiarato dallo stesso Marozin durante un procedimento a suo carico. Di tale ordine, proveniente secondo loro dal CLN non fu trovata nessuna traccia scritta. Di scritto c’è soltanto un foglio in data 25 aprile dove si legge che “…il CLN su proposta dei socialisti vota all’ unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici”. Ci doveva dunque essere un processo stando alle carte, non una condanna a morte. Valenti e la Ferida furono condotti in una cascina, ove vissero i loro ultimi giorni. L’attore subì un processo sommario, al termine del quale fu confermata la sentenza di morte. Condanna che non fu mai comunicata al diretto interessato e che riguardava anche la compagna. Ignari della loro fine, i due innamorati furono caricati su un camion insieme ad altri rastrellati. Giunti in via Poliziano, furono fatti scendere e messi faccia al muro. La donna stringeva in mano una scarpina azzurra di lana, destinata a scaldare i piedi innocenti di quel bambino che non vide mai la luce. Partì la raffica di mitra. I due caddero al suolo, stretti tanto nella vita quanto nella morte. Su di loro furono adagiati due cartelloni. Due scritte rosse dicevano: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Tre vite spezzate in un colpo solo. Due vite probabilmente incolpevoli e una semplicemente candida. Pochi giorni dopo l’esecuzione la casa dei due attori fu svaligiata e depredata di ogni avere della coppia, da autori ignoti. Negli anni successivi, la madre della Ferida domandò una pensione di guerra, dato che traeva il suo mantenimento dai proventi della figlia. La domanda rese doverosi degli accertamenti sulla vicenda. Le indagini dei Carabinieri portarono alla conclusione che “la Manfrini, dopo l’8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano”. Conclusione ribadita dallo stesso Marozin, che ebbe a dichiarare: “La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti”. Luisa Ferida fu riconosciuta completamente estranea ai fatti imputateli e alla madre venne elargita dal Ministero del Tesoro la pensione di guerra richiesta. Nemmeno Valenti aveva probabilmente fatto niente, come fu poi confermato dalla Corte d’Appello di Milano: la Ferida e Valenti non furono giustiziati, bensì assassinati. Si trova sulla stessa posizione anche Romano Bracalini, biografo di Valenti, che dice: “La frettolosa condanna del CLN obbediva sostanzialmente alla regola umana e crudele che alla spettacolarità del simbolo che egli aveva rappresentato corrispondesse subito e senza ambagi una punizione altrettanto spettacolare. In altre parole egli doveva morire non già per quello che aveva fatto, quesito secondario, ma per l’esempio che aveva costituito”.

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