venerdì 19 Luglio 2024

Anche se tutti io no

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Sulle seduzioni antieuropee. Non sarò breve

Il ritornello è diventato un coro.
Il coro dice che è tutta colpa della Ue e dell’Euro; che bisogna uscirne in fretta.
Il coro dice che la classe politica ha tradito la Nazione (il che è vero) e che non la rappresenta (il che è falso perché purtroppo ne è l’espressione legittima e la più fedele).
Il coro dice che si recupereranno democrazia e sovranità (come se fossero sinonimi e non invece concetti difficilmente compatibili tra loro) rompendo la tenaglia burocratica e dirigista e approdando nel liberalismo puro. Con qualche tinta patriottarda tanto per dargli un aspetto passabile.
Il coro dice che il sistema arranca, che ha problemi, che è quasi finito.
Però il sistema il coro lo situa (in modo parzialmente corretto) a Bruxelles e (in modo in gran parte errato) a Berlino. Stranamente non lo vede più a Londra, a New York, a Dubai e neppure a Roma.
Non lo vede dunque dove è più forte ma solo nel luogo di scontro (Bruxelles) e in quello che è il principale bersaglio di chi ci odia (Berlino).
Il coro si disinteressa di problemi secondari, come le speculazioni delle grandi piazze finanziarie di cultura Wasp, la dittatura del rating, i nuovi accordi internazionali tra americani e cinesi, il ruolo tumorale e di sanguisuga di Londra, il timore di tutti questi di un’Europa trascinata dall’iniziativa tedesca ad un abbraccio con la Russia; ovvero il novanta per cento delle cause dei nostri guai.
Il coro accoglie supinamente, rigirandone i toni, quello che esce come input dalla classe dirigente italiana.

 L’Italia è differente
Essa come tutte le classi dirigenti occidentali, appartiene in senso letterale al gotha della finanza che le dice cosa fare. Non è solo questione di oggettivo tradimento: è un fatto normale nell’evoluzione patologica del sistema sociopolitico occidentale.
A differenza di quanto avviene in molti altri Paesi, però,  la classe dirigente italiana se ne fotte completamente degli interessi nazionali e anziché mediare e compensare non esita a svendere tutto.
Colpa di chi fa asso pigliatutto o dei cialtroni nostrani?
I quali sono italianissimi, ovvero gente furbetta  per cui, come ebbe a dire Cossiga, gli italiani sono sempre gli altri.
Quali che siano, e non sono poche, le responsabilità di Bruxelles, quelle italiane sono maggiori.
Per fare un esempio, non si doveva firmare il patto di stabilità, ma una volta firmato nessuno da Bruxelles ci ha ordinato con precisione come dobbiamo pagare quasi cinquanta miliardi all’anno. E’ la nostra classe politica che ha deciso di non colpire  la spesa pubblica parassitaria  ma quella strutturale. Non è Bruxelles ma Roma che ha deciso di uccidere il risparmio, la produzione e il consumo invece di mettere fino allo scempio attuale di oltre duecento miliardi all’anno  (su un totale di spesa pubblica di circa ottocentocinquanta) che si perdono nel clientelismo, nelle tasche dei grandi manager e negli innumerevoli e inutili responsabili nominati dai partiti.
E cosa fa la classe politica ogni volta che c’impone una vigliaccata? Italianissimamente non si assume responsabilità ma ci propina un “ce lo chiede l’Europa”.
Che l’Europa ce lo chieda – sempre facendo la forzatura di ridurre l’Europa all’Ue – può anche esser vero, ma non è vero che non si può discutere, che non si può trattare, che non si può forzare, né che il genere di rapina costante che si compie nelle nostre tasche e  l’uccisione che si perpetra nei confronti del nostro essere ce li chieda l’Europa.
La demenza dello Ius Soli per esempio va in controtendenza con il resto della Ue; così come gli appelli a spalancare le porte all’immigrazione massiccia  vengono dalla Caritas, dal Papa, dalla Boldrini e da altri campioni nostrani proprio quando in Europa s’inizia a cercare il modo di far marcia indietro.
E sarebbe l’Europa il nostro male, non  noi?

Eccitazione
C’è fervore in giro.
L’insofferenza popolare si mescola con la rabbia delle fasce più colpite e persegue confusamente una qualche reazione. Questa si articola a metà tra un nostalgismo raffazzonato in cui l’epoca squallida del consociativismo mafioso e stragista ci appare come una mitica età dell’oro e un utopismo fatto di economicismo populista, semplicistico e frettoloso, spesso improbabile ma sempre profetico e apocalittico.
Non si accorgono le folle – sempre che si tratti di folle e non di chiassose minoranze – che a furia di semplicismi e di diversivi, a furia di sbagliare bersagli o di puntare  sui meno importanti (Bruxelles invece di Roma; Berlino invece di Londra), esse rispondono esattamente agli input del sistema dominante.
Tant’è che qui ad ovest, dove le piazze speculatrici, gli imperialisti e Soros vogliono dividerci, le parole d’ordine sono antieuropeiste.
Invece ad est dove vogliono rintuzzare la Russia, la bandiera che si sventola è quella della Ue.
Purtroppo non noto in questo una presa di coscienza neppure in quelle che dovrebbero essere avanguardie.
Percepisco invece l’eccitazione che spinge a stare sulla cresta dell’onda, come se si trattasse di uno tsunami invece che di un po’ di mare mosso, senza che ci si chieda a cosa servirà, se si sbagliano l’analisi e la prospettiva, una volta ricaduta  l’onda.  A cosa  oltre che a fallire l’ennesimo appuntamento con la storia?

La Ue
La Ue è uno schifo, ma è anche il risultato di un cambio epocale, del bilanciamento tra più luoghi di potere e più interessi geoeconomici, nonché un luogo di scontro tra centri di civiltà diversi e a volte contrastanti.
La Ue è uno schifo, ma è anche il luogo ove si radunano, alla rinfusa e sotto il controllo di guardiani da schiaffare in galera, le sole possibilità di sopravvivenza fisica, economica e biologica dei nostri popoli.
La Ue è uno schifo, ma è sotto attacco da quando, nel 2008, prese posizione compatta per Mosca contro Washington nella crisi georgiana.
L’Euro è un altro discorso. Va rivoluzionato, è certo. Nel combattere i banchieri della Bce e i santoni di Basilea e nel tentativo di ristrutturarlo alla radice non si deve però sottovalutare mai il fatto che da quando esiste ha costretto Washington (e Londra) a una serie di vere e proprie guerre  internazionali per contenere la nostra – europea – influenza crescente.
Né vanno ignorate le cospirazioni o le persecuzioni subite da chi, come Strauss-Kahn, ha provato a sfidare Londra e New York.
Ignorare o minimizzare tutto ciò è criminale oltre che assurdo.
C’è guerra ed è una guerra in cui l’Europa è troppo potente per non essere attaccata ma lo è troppo poco per neutralizzare gli attacchi. Ergo, se noi non vogliamo  soccombere, essa va rafforzata.
La soluzione non sarà certo il nostalgismo sovranista, che in un colpo solo cancella tutte le constatazioni delle avanguardie del dopoguerra le quali, in anticipo su tutti, ritennero che l’unica sovranità possibile fosse ormai su scala continentale .
Non andrà da nessuna parte questo nostalgismo fuori tempo o, peggio, se contribuisse ad un’implosione pilotata, aiuterà Soros, la City, il progetto bipolare sino-americano e l’accelerazione della nostra fine comune.
Tuttavia questa falena illude molti perché ultimamente l’euroscetticismo è un prodotto gettonato, e poiché si ammanta di retoriche patriottarde, quasi che l’italianità si risolvesse al made in Italy (al novanta per cento confezionato all’estero da lavoranti stranieri) e alla difesa del portamonete di un commerciante italiano rispetto a quelli di un commerciante francese o tedesco.
Nazionalismo questo? Suvvia: è una sorprendente regressione nel liberalismo provinciale con dazi.

Il consenso che si ritiene facile
Non serve riflettere però perché è come un’ubriacatura.
La collera popolare viene indirizzata su bersagli falsati e si nutre di utopie fuorvianti.
Chi, da antagonista emarginato cronico, la vede crescere, si eccita e si comporta nei suoi confronti con la stessa freddezza di un adolescente tormentato dal sesso ancora non sperimentato che entrato per la prima volta in discoteca  vede e annusa le ragazze che si dimenano.
L’eccitazione gli modifica il giudizio.
Sicché, anziché offrire il giusto correttivo e gli antidoti efficaci a questa demagogia tollerata (e coccolata!) dai piani alti, chi dovrebbe guidare segue; magari mettendosi  fisicamente davanti al branco ma allineandosi e assecondandolo nelle parole d’ordine senza prospettive.
Nell’illusione di raccogliere un consenso, che poi su quei temi già hanno in tasca Grillo, Berlusconi, la Lega e qualche spaventapasseri dell’ultimo minuto, ci si mette in fila e si smette di guardare lontano.
C’è   perfino chi confonde il bollore refrattario dell’euroscetticismo con un sintomo pre-rivoluzionario!
La sbornia da successo facile ottenebra. Né servirà spiegare a chi ha l’abitudine di deformare regolarmente il reale secondo i suoi desideri, che dire le stesse cose di altri concorrenti più forti, con gente come Salvini che buca i teleschermi, non fa prendere voti, semmai li indirizza verso la concorrenza più strutturata.
Non servirà spiegare a chi non vuole assolutamente ammettere la realtà per non essere costretto a correggersi, che il consenso elettorale è quasi una scienza esatta e che se se ne ignorano i canoni per partito preso il risultato non cambia.
Non è con il cavallo di battaglia di mezzo mondo che si avanza. 
Lo si fa senza andargli contro, senza tirargli nelle zampe, ma offrendo un diversivo, un di più.
Sì da non far fuggire chi, comunque, vorrebbe seguire quella galoppata ma da attrarre anche chi ha altri grilli per la testa.
Chiamasi sommatoria nella differenziazione.

Una base programmatica
In questo clima eurorefrattario non si dovrebbe quindi far nulla a sentir me?
Certo! Si possono affiancare le confuse indignazioni popolari con slogan diversi da quelli che si perdono nel coro. Slogan che consentono d’introdurre poi ben altri contenuti. Come “no ai banchieri dell’Euro”; “no ai servi di Londra e Bruxelles”; “no ai politici al soldo dell’usura”.
E poi si può sostanziare questo sloganismo che, senza farsi fuorviare nell’antieuropeismo e nell’anti-euro, non contraddice comunque alla base il disagio confuso, accompagnandolo con sani contenuti di rettifica. Ne abbiamo a decine, ne citiamo qualcuno ma la lista è infinita. 
Denunciare i trattati che hanno consegnato ai banchieri e ai commissari politici il potere assoluto sui popoli europei. Stracciare le convenzioni di Basilea che ostacolano gli investimenti produttivi in Europa a vantaggio di Usa e Cina. Stracciare l’attuale Patto di Stabilità e rivederne tutti i parametri.
Ridisegnare l’Europa (da federale a confederata) offrendo ad essa – e a tutti i popoli che la compongono – l’opportunità di competere nel mondo globale senza più essere preda del rinnovato imperialismo americano e della concorrenza sleale asiatica. 
Riscrivere la Costituzione europea prendendo spunto dalla Costituzione ungherese. 
Nazionalizzare le banche nazionali (che oggi a dispetto del nome sono tutte private). 
Stabilire nuovi criteri economici e sociali per dare all’Euro, finalmente lo status di moneta sovrana fuori dai parametri monetaristi ed il vincolo alla sua emissione alle diverse Banche Centrali nazionali, con una Banca Centrale Europea che svolga il ruolo di mera supervisione, ma vincolata alle decisioni politiche degli Stati Confederati e non in totale autonomia come avviene ora.
Imporre alla Banca Centrale la sovranità popolare che si eserciterà per quote nazionali e con logica corporativa.
Introdurre la moneta senza debito.
Stabilire dazi e misure protezionistiche verso capitali e merci extraeuropee, privilegiando lo scambio interno allo spazio europeo, e la stipula di Trattati bilaterali con la Russia e gli Stati rivieraschi del Mediterraneo.
Chiudere lo spazio europeo ai cittadini extraeuropei, in attesa di una politica comune sull’immigrazione adottata a livello confederale.

Da che parte stare
Si tratta di scegliere.
Vivere l’oggi senza montarsi la testa, senza ubriacarsi, senza sopravvalutare il diffuso sentimento d’ira né, soprattutto, noi stessi; vivere l’oggi senza tradire lo ieri, il nostro comune e ormai bisecolare  sogno europeo, vivere l’oggi senza disertare il domani per sbronza di consenso balenato.
Oppure partecipare al delitto che viene consumato, al disegno così ben congegnato, per cui chi si ribella giustamente alle tasse, alla gestione marxista e clericale di loggia, all’invasione straniera, allo Ius Soli, si debba obbligatoriamente confondere con chi si pone referendariamente contro l’Europa.
Certo, si può sempre dire: prima disfiamo questa e poi facciamo quell’altra, ma non è così che funzionano la storia né la vita.
So che prevarrà questa scelta, che più o meno tutti accetteranno l’invito a cena con delitto.
Personalmente cercherò di affiancare il populismo e il ribellismo con proposte strategiche e coerenti nel solco della  tradizione che ho abbracciato e nel miraggio di quanto ancora non considero tramontato, ovvero che esistano per noi popoli latinogermani un futuro e un destino con volontà di potenza.
E contrasterò la retorica antieuropeista in tutte le sue forme e nei suoi incoraggiamenti espliciti o subliminali quali sono quelli sul genere “prima disfiamo poi rifacciamo” ma “soprattutto e urgentemente contro”, incoraggiamenti che considero deleteri, perché se proprio non si vuol accettare di seguire una vincente terza via nel dualismo idiota del sì e no, meglio sempre difendere l’Europa, qualunque Europa, piuttosto che demolirla per qualunque motivo.
Certo, l’Europa è amministrata da eunuchi furiosi, comunisti d’ideale, veterotestamentari di spirito, clericali di mentalità, massoni di comportamento.
L’Europa dell’ovest tutta, né più né meno dell’Italia che non sta meglio delle altre.
Ci si dimentica un po’ troppo facilmente che qui, esattamente come altrove, la classe dirigente appartiene alle stesse logge, alle stesse parrocchie, alle stesse cellule e alle stesse holdings dalle quali dipendono i  burocrati di Bruxelles e, soprattutto, che quella cultura marxista, veterotestamentaria, clericale e di loggia, ha fatto breccia anche da noi e a ben guardare forse più in profondità che altrove.
Certo, non c’è futuro possibile in Europa se non si ribalta tutto, se il profondo gene e il solido legame radicale che sottende a questa classe dirigente frutto della sovversione psicanalitica e trozkista non avrà la meglio su di essa prima che noi si sparisca dalla discendenza.

Amare gli italiani si può, niccianamente
Ma ciò vale per l’Europa intera. Non è vero che è più facile reagirvi in Italia che nell’Europa tutta.
E’ vero semmai il contrario. Perché un po’ ovunque permane della sana barbarie, un po’ ovunque meno che da noi, dove i bamboccioni sono viziatissimi e il mammismo domina, castra e rende sterili.
Che ci siano eccellenze nel coraggio, nell’eroismo, nel gusto, nell’arte, non toglie che collettivamente gli italiani siano qualcosa di disperante che solo una serie di drammi potrà forse curare.
A prescindere da quello che si pensa dell’Europa e quand’anche non si colga l’importanza fondamentale della sua coesione, non si può sperare che un popolo così destrutturato e smidollato quale lo è oggi il nostro, possa fare qualcosa da solo; non è magiaro né baltico né ucraino, né bielorusso: è defilippico!
Solo le sue eccellenze possono ergerlo al di sopra del porcile teatrante in cui si pasce  ogni giorno, lordo e impudico. Ma quelle eccellenze, quelle aristocrazie rivoluzionarie espresse dalla base, sempre che ci siano, hanno possibilità di riuscita solo se si pongono alla testa di un processo più vasto, se partecipano ad un’orchestra.
Se riescono a essere la punta di lancia di un’aristocrazia popolare emersa dalle varie componenti europee sì da guidare quelle e da trascinare insieme ad esse altri popoli più compatti che a loro volta potranno trascinare il nostro popolo imbelle con l’esempio, mostrandogli, perché altro raramente concepisce, che gli conviene.
Solo chi ama davvero sa disprezzare; solo chi disprezza ama davvero.
Dunque possiamo dire che io li amo davvero i miei connazionali.
Quelli che da decenni (o forse da secoli?) hanno fatto sempre e solo i cavoli propri, quelli che da decenni non  disegnano un sogno, un’ambizione. Quelli che la parola comunità la confondono con associazione di interessi rapidi e rapaci e sempre di parte.
Quelli che quando hanno aderito alla Trilaterale hanno svenduto le proprietà nazionali, mica fessi come i tedeschi che ne hanno approfittato per riunire la Germania e per spingerla avanti!
Quelli che alternano gli osanna a Piazza Venezia con i 25 luglio e gli 8 settembre.
Quelli che quando perdono fanno finta di aver vinto. Quelli che tirano le monetine a Craxi ma si riempiono le tasche per i cavoli propri.
Non a questa gente, che si fa grande a parole e a schiamazzi, affiderò le mie discendenze.
Lo farò solo a quelli che il dramma e la tragedia avrà infine sublimato.

Fuori dal coro
Non aiuterò questi altri, nella presunzione oltretutto infondata di fare i propri interessi, ad attaccare l’Europa, né a seguire Londra e New York per colpire Berlino e di rimbalzo Mosca.
Non sono nuovo ad andare controcorrente e non mi disturba essere,  come prevedibile, in stretta minoranza.
Se le prossime elezioni europee vedranno l’insano matrimonio tra il giusto populismo e l’anti-europeismo che non accetto, canterò fuori dal coro.
Infastidito da questo presunto nazionalismo patriottico di ritorno che si accontenta, con quella faciloneria tutta nostrana che spesso scade nel cialtronesco, di cantare le inarrivabili lodi peninsulari  senza voler guardare dietro la copertina. Con quell’autocompiacimento gradasso, acritico e strillone che ben conosciamo e che s’acceca sempre.
Non mi metterò di traverso perché, in ogni caso, è meglio che nella dinamica dello sfacelo e pur con i temi del nemico, cresca una componente alla Front National piuttosto che una alla Grillo.
Perché sentimentalmente e antropologicamente si può sempre fare qualcosa anche nel vicolo cieco in cui, purtroppo, sembra avviata.
Lo farò però in chiave critica e non in sordina, rintuzzando, ovunque possa, il concetto disastroso secondo cui si dovrebbe giocare l’Italia contro l’Europa, o anche la Lira contro l’Euro o il Quirinale contro la Ue.
Sarebbe più comodo fare diversamente, ma non sarei serio né intero.
Piuttosto che scadere nel conveniente è meglio essere invisi a dio e agli inimici sui, anche se nel farlo si sia in pochi o finanche da soli.
Il tempo giudicherà, ma, convintissimo che già abbia giudicato, non cederò d’un passo; come dice l’adagio: “anche se tutti io no”.

 

 

 

 

  

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