domenica 21 Luglio 2024

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Grandi progetti di cambiamento e grandi difficoltà strutturali

Doveva essere un progetto in grado di portare una vera e propria rivoluzione all’interno del panorama agricolo africano, ma nonostante la cifra astronomica raccolta tramite le donazioni, superiore al miliardo di dollari, il progetto Agra (Alleanza per la rivoluzione verde in Africa) è stato fino a questo momento un tragico fallimento. Nato dalla spinta propositiva della Gates Foundation e supportato dalla Rockefeller Foundation, Agra aveva l’obiettivo di ammodernare, secondo gli standard occidentali, la metodologia di semina e raccolta nel continente africano e di aumentare la ricchezza delle famiglie locali. In 15 anni, però, il reddito medio degli agricoltori ghanesi e burkinabé non è cresciuto di nemmeno 100 dollari annui pro capite, dissipando però al tempo stesso il patrimonio di oltre un miliardo di dollari.

Usato un metodo sbagliato
Le accuse principali rivolte ai fautori del progetto si focalizzano principalmente sulla presunzione di poter applicare un sistema di agricoltura rivelatosi funzionante nell’emisfero boreale a uno scenario agricolo completamente differente come quello del Sahel e della Tanzania. E in modo particolare, come messo in evidenza dalla fondazione Rosa Luxemburg (vicina al partito tedesco Die Linke), il progetto non avrebbe tenuto conto dei costi esorbitanti rispetto alle controparti locali delle sementi “sponsorizzate” da Agra.
Secondo quanto emerso anche dalle analisi della Ong “Bread for the world”, molti agricoltori africani continuano, nonostante le sovvenzioni del progetto, ad utilizzare i prodotti indigeni, poiché più redditizi e soprattutto meno costosi. Soprattutto poiché nei 15 anni di affiancamento i risultati promessi non sono mai stati nemmeno lontanamente ottenuti, accrescendo la sfiducia egli agricoltori africani nei confronti di un progetto diventato giorno dopo giorno una mera utopia.
Ma non solo. A differenza del mais, i sementi africani necessitano di dosi meno importanti di pesticidi e fertilizzanti per essere coltivati, abbattendo i costi di produzione e permettendo alle colture di non danneggiare in modo invasivo i pochi terreni coltivabili a disposizioni. In uno scenario che, in conclusione, evidenzia quanto la bontà del progetto sia andata incontro a difficoltà che si sarebbero dovute tenere in considerazione.

Progetti utopici ma pochi risultati: il paradosso dei Gates
A livello internazionale, la Gates Foundation si può considerare la più grande Ong personale in termini di investimento nei territori svantaggiati del pianeta. Tuttavia, nonostante le ingenti somme a disposizione, la capacità di attrarre donatori e il folto numero di progetti seguiti, nel corso degli anni i risultati ottenuti sono sempre stati scarsi o comunque inferiori alle attese. Impossibile, dunque, non notare come ciò sia stato nella quasi totalità dei casi dovuto al tentativo di applicare pedestremente le strategie occidentali al mondo africano, senza mai cercare invece di sviluppare metodologie alternative che fossero in simbiosi con le logiche e le possibilità locali.
Rimanendo sul tema dell’Agra, però, l’errore è appunto da ricercarsi nel tentativo di “riprodurre” un metodo che ha dato i suoi frutti nei Paesi industrializzati senza cercare, al contrario, di migliorare e ammodernare le tecniche agricole locali, risultate a loro modo vincenti in relazione alle poche disponibilità. Evidenziando ancora una volta come, per fare beneficienza, non sia sufficiente una capacità di fuoco in termini di disponibilità economiche quasi illimitata se, al tempo stesso, i progetti non vengono contestualizzati negli scenari locali.
Dal periodo della rivoluzione industriale in avanti, il rapporto di simbiosi che sino a quel momento l’uomo ha avuto con la natura è andato frantumandosi. L’accelerazione dell’industrializzazione, l’utilizzo dei combustibili fossili e dei suoi derivati, una mancanza di cura per l’ambiente circostante e il costante aumento della popolazione mondiale hanno dunque segnato una strada da molti già definita di non ritorno. E tutto ciò, a dir la verità, è avvenuto e sta avvenendo ancora adesso in modo più o meno diffuso in tutto il globo, nonostante gli allarmi lanciati dagli scienziati e nonostante gli accordi trovati dai governi mondiali.
L’Europa, anche a causa del suo inizio precoce, è forse il continente nel quale per eccellenza sono visibili i danni portati dall’industrializzazione, con i tentativi di recupero che sono iniziati soltanto da pochi anni (ed in modo alquanto timido). E tra tutti i Paesi, come riportato dalla rivista tedesca Der Spiegel, uno in particolare si è contraddistinto per l’enorme mole economica dei danni apportati al suo ambiente (la quale ammonterebbe ad oltre 670 miliardi di euro): la Germania.

La Germania ha 670 miliardi di problemi ambientali
Negli ultimi anni siamo stati abituati a vedere la Germania quasi come la perfezione all’interno del panorama europeo. Un bilancio statale sostenibile, industrie fiorenti conosciute in tutto il mondo e un sistema bancario/finanziario che si poteva definire il fiore all’occhiello d’Europa, al netto forse della sola Svizzera. Tutte certezze che, con la pandemia di coronavirus e con gli scandali che hanno colpito le banche e le finanziarie tedesche, sono andate gradualmente scemando.
Con il suo sistema di vigilanza finanziaria (la BaFin) che si è scoperta fare acqua da tutte le parti e con le proprie industrie atterrate dalla crisi della domanda (persino nel settore automobilistico), tutto ciò che rimane alla Germania, del suo grande sviluppo, sembrano dunque essere i danni ambientali. I quali, secondo le ultime analisi, ammonterebbero appunto a una cifra astronomica.

Allevamenti intensivi ed inquinamento. Forse il 2050 è troppo lontano
Nel corso della seconda metà dello scorso secolo, la Germania ha compiuto dei grandissimi balzi in avanti, considerando anche come ne uscì distrutta dalla Seconda guerra mondiale. E questo sviluppo, però, è costato molto in termini di impatto ambientale e modificazione dell’ambiente circostante, al punto da rendere la Germania forse il Paese nel quale l’intervento invasivo e distruttivo dell’uomo è stato più evidente. Allevamenti intensivi e edifici industriali non sono infatti che la punta dell’iceberg di una serie di problemi ben più radicati nel mondo tedesco, il quale ancora adesso soffre di una importante emissione di gas serra nell’ambiente nonostante le promesse di una diminuzione del loro utilizzo.
A seguito degli accordi presi a livello europeo, però, la situazione dovrebbe regredire, sino ad arrivare al prossimo 2050 al tanto sperato “impatto zero” con l’ambiente. Benché però la promessa sia importante e necessaria per la tutela della nostra vita in futuro, la sensazione è che con i ritmi attuali, anche qualora fossero gradualmente ridotti, l’asticella sia stata posta troppo lontana e che altri quasi 30 anni di impatto sull’ambiente possano generare una situazione davvero irreversibile.

Promesse e richieste al Mondo, ma in casa suona un’altra musica
Come spesso accaduto, dunque, la Germania si è rivelata essere una delle nazioni in prima linea nel portare avanti progetti utopici, solidali e ambientali a livello mondiale, dimenticandosi però di guardare a quello che succede all’interno dei propri confini. Una storia già sentita, che evidenzia ancora una volta quanto sia semplice chiedere agli altri e quanto sia difficile compiere davvero qualcosa di propositivo.
Il problema, però, è che riparare a 670 miliardi di euro di danni (attuali) all’ambiente in questo momento sembra davvero un obiettivo insormontabile. Se a questi si aggiungono poi quelli causati di riflesso (come l’aumento delle malattie e la distruzione di alcune faune selvatiche) la sensazione è proprio quella che ormai il punto di non ritorno sia già stato superato. E se la situazione vuole essere parzialmente recuperata, però, Berlino dovrebbe muoversi d’anticipo; cosa che, fino a questo momento, non è ancora però successa, lanciando la Germania in cima alla classifica dei Paesi Europei dal peggior impatto aggregato ambientale.

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