venerdì 19 Luglio 2024

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L’Africa spera per il colore della pelle di Obama ma non gli porterà che ulteriore fame come da quando gli Usa si sono immischiati nel continente

    ‘Welcome Home!’. Accra ha accolto Barack Obama come un figlio ritrovato, riempiendo le strade di bandiere, di gente, di entusiasmo per la prima storica visita di un presidente americano dal sangue africano nelle vene. E Obama, che ha scelto il Ghana per questo viaggio per indicarlo a modello di democrazia e di buon governo al resto del continente, consegna all’Africa, come aveva già fatto con l’America, il suo messaggio di speranza, ma anche di richiamo alle responsabilità, centrato stavolta su un semplice concetto: “Il futuro dell’Africa appartiene agli africani”.
Ad ascoltarlo al Centro Conferenze di Accra, dove campeggia enorme lo striscione ‘Yes, Together We Can’, ci sono non solo i massimi esponenti di tutte le istituzioni del Ghana (compresi governo e Parlamento), ma anche i due ex-presidenti John Kufuor e Jerry Rawlings. Accanto a lui sul palco c’é l’attuale presidente, John Atta Mills, che ha conquistato il potere con una vittoria elettorale mozzafiato, risolta da pochi voti, dopo una campagna centrata sullo slogan ‘Yes We Can’. “Entrambi i nostri due paesi hanno votato alcuni mesi fa per il cambiamento”, osserva Atta Mills, facendo scattare l’applauso del pubblico, nel suo discorso di presentazione del presidente Usa. E’ quindi la volta degli inni nazionali, suonati con un organo a canne, mentre tra il pubblico spiccano i tradizionali costumi dai colori sgargianti, compreso un capo tribù che viaggia sotto l’ombrello tenuto sempre aperto da un adolescente. Obama – che nei precedenti discorsi internazionali di alto profilo era stato molto attento a non offendere europei (Praga), musulmani (Il Cairo) e russi (Mosca) – ha scelto qui ad Accra un tono più brutale.
Non serve a niente dare la colpa al passato coloniale o all’Occidente sfruttatore: “Bisogna mettere fine alle pratiche antidemocratiche ed alla corruzione, così endemica nella vita quotidiana. Bisogna adottare le regole del buon governo”. Obama non ha risparmiato gli esempi: leader che pensano solo ad arricchirsi, poliziotti al soldo dei trafficanti di droga, funzionari di governo che esigono bustarelle del venti per cento dagli uomini d’affari, doganieri corrotti. “Nessuno desidera vivere in una società dove la legalità é sostituita dalla brutalità e dalla corruzione – ha detto Obama -. Questa non è democrazia. Questa è tirannia. Ed è giunto il momento per mettere fine a queste cose”. La Storia non è dalla parte di chi ricorre ai colpi di stato o ai mutamenti della Costituzione per restare al potere: “L’Africa non ha bisogno di uomini forti – ha sottolineato Obama – ha invece bisogno di istituzioni forti”. Sono frasi che scatenano grandi applausi e l’urlo ritmato ‘Yes We Can!’. Il presidente americano ha fatto buon uso, come sempre, della sua storia personale: “Ho sangue africano nelle vene e la storia della mia famiglia racchiude sia le tragedie che i trionfi della storia africana”. Obama ha ricordato che suo nonno era cuoco nel Kenya dominato dai britannici (trattato tutta la vita come un servitore) e che il padre era un pastore di capre in un minuscolo villaggio, prima di fare il gran salto in America. Ma dopo che aveva studiato ad Harvard ed era tornato in Kenya per partecipare attivamente alla rinascita del paese, queste speranze sono andate deluse. E’ stato il Ghana a fare invece quello che il Kenya non è ancora riuscito a fare: imboccare la strada di una forte democrazia (dopo anni di colpi di stato) e di sane istituzioni di governo. L’Africa non deve tenere di restare sola. L’America è pronta a portare aiuto (insieme al resto della comunità internazionale), ma solo i paesi che lo meritano, combattendo la corruzione e facendo buon uso degli aiuti ricevuti. Una battaglia vitale è quella sanitaria. “Quando un bimbo muore ad Accra per una malattia che poteva essere prevenuta, questo diminuisce tutti noi”, ha detto Obama.
Il presidente Usa ha parlato del genocidio nel Darfur, del terrorismo in Somalia, delle divisioni tribali ed etniche che sprigionano conflitti permanenti. Ed ha ricordato che 52 anni fa, Martin Luther King venne in Ghana per partecipare alle cerimonie di indipendenza del paese, spiegando di voler assistere “al trionfo della giustizia”. Rivolgendosi ai giovani Obama ha detto: “Avete ereditato la libertà, ma non basta. Adesso è vostra responsabilità erigere su queste fondamenta una società giusta, sempre più democratica e sempre meno corrotta. Sarà un nuovo trionfo della giustizia”. Il presidente Usa ha concluso la visita in Ghana recandosi al castello di Cape Coast, dove nei secolo scorsi gli schiavi venivano ammassati in catene nei sotterranei, in attesa di essere imbarcati sulle navi dei negrieri. Obama ha definito “altamente simbolica”, come afro-americano, la sua visita ad un luogo dai ricordi così crudeli. Il passaggio che gli schiavi dovevano varcare, spesso dopo mesi di attesa nelle prigioni del castello, per essere imbarcati sulle navi, era chiamata “la porta del non ritorno”. Ma Obama ce l’ha fatta. E’ tornato oggi in Africa, dopo avere spezzato molti tipi di catene, accolto con l’entusiasmo incontenibile di un figlio finalmente ritrovato.

Spiace che tanta gente speri e che quindi morrà disperata. Eppure non c’è niente da scoprire. Da quando l’Africa è stata “decolonizzata” e, con ciò, riorganizzata dallo sfruttamento delle Multinazionali, è andata in balia a pestilenze, fame e guerre interetniche. Prima che intervenissero i progressisti il continente soddisfaceva i suoi bisogni alimentari autonomamente per il 98%. Obama is a joker!

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