Uno stupratore vale l’altro
Venti anni fa cadeva il muro, si ricuciva lo stupro praticato dai due fronti vincitori della guerra.
Una violenza la cui responsabilità fu condivisa dai sovietici come dai “liberatori” e i loro cantori, i nonni di chi oggi esulta imbevuto di europeismo di maniera.
La responsabilità di chi non volle indietreggiare rispetto alla propria strategia imperialista a costo di proseguire nella devastazione della Germania, rea di aver alzato la testa contro la bestia materialista, quella dal pelo a stelle e strisce come quella di pelo rosso.
Il muro fu l’estremo rimedio per imporre la propria sfera d’influenza, laddove le sirene del capitalismo occidentale mettevano – strategicamente, preordinatamente – a rischio gli obiettivi egemonici ad est.
La sua costruzione come la caduta furono fasi di uno scontro, conclusosi col prevalere di una delle due fazioni.
I “destri” affollano strade e convegni di inni alla vittoria del bene contro il male, delle forze democratiche contro la crudele dittatura. Ma aldilà della (parziale) ricomposizione dell’assurdo di una terra scempiata da bombe e divisioni, si è trattato solo di una sostituzione di regime.
Chi sostiene le ragioni dell’opposizione al caos dovrebbe andare oltre e leggere in quegli eventi la vittoria della logica del “magna e fotti”: era la ricchezza, l’american dream, che l’europa sotto il giogo sovietico cercava.
Pochi quelli che sognavano la vivificazione del Mito, quello per il quale si sacrificarono i guerrieri tedeschi francesi, olandesi, norvegesi.