venerdì 19 Luglio 2024

La macelleria di fronte casa nostra

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V puntata, Gnjigliane

L’incontro con Dragan avviene all’ingresso della città di Gnjiliane, un insieme di case tra Gracanica e Kamenica. Abbiamo concordato di vederci al cartello della città perché lui, serbo, non se la sente di entrare in un paese a maggioranza albanese. Dragan ha 45 anni, un pizzetto appena accennato, due occhi piccoli e marroni, naso e mento a punta e un bel sorriso che rende tutto l’insieme molto simpatico. Nel bar sono in corso i preparativi per la grande festa di questa notte di Capodanno. E’ un bar molto moderno, pulito, ed è anomalo trovarlo in queste zone. Stanno facendo i volumi della batteria, noi saliamo al piano di sopra per aver un po’ più di tranquillità per la nostra chiacchierata.
Dragan ha sei figli, la più grande ha 21 anni e il più piccolo otto. E’ vedovo: sua moglie è morta tre anni fa, a soli 36 anni, a causa di un tumore. “Come mai parli così bene l’italiano?”. Dragan si accende una sigaretta e ci dice che ha lavorato per sette anni a Rovigo come operaio e poi ha lavorato qua per altri sette anni come interprete per i carabinieri di stanza nella zona.
“E facevamo la guerra con tutti, americani, albanesi…”
“In che senso facevate la guerra con tutti?”
“Gli americani avevano quest’ordine: albanesi buoni, serbi cattivi. I carabinieri invece appena sono arrivati si sono dimostrati più elastici, dando assistenza e aiuto anche ai serbi. Con il tempo hanno anche capito chi era davvero dalla parte del giusto e chi da quella sbagliata’’.
“Tre giorni fa abbiamo incontrato Marilena, che tu conosci. Lei ci ha detto che secondo lei c’è una specie di abbandono da parte del governo serbo verso queste zone, come se considerasse il Kosovo una storia chiusa… Sei d’accordo con questa visione delle cose?”
“No, non sono d’accordo. A dimostrazione di questo posso dirvi che io e molti altri serbi percepiamo una pensione di sussistenza da parte di Belgrado. Ovviamente, data la contingente crisi economica e il fatto che la Serbia non è una nazione ricca e che ha subito 15 anni d’embargo, una guerra civile e una guerra d’aggressione da parte della Nato, le cifre di queste pensioni non possono essere più di tanto elevate: si aggirano intorno ai 200 euro al mese comprensivi di contributi previdenziali, che al netto significano circa 120 euro. E sono molti anche gli albanesi che riescono a percepire queste pensioni da Belgrado esibendo documenti che ne attestano la precedente cittadinanza serba. Io poi prendo gli assegni famigliari, e per noi serbi del Kosovo è prevista anche la possibilità di ottenere finanziamenti per l’avvio di nuove attività lavorative in base a progetti che noi stessi presentiamo”.
“Abbiamo saputo che sono molti i serbi che stanno tornando in Kosovo anche su spinta del governo di Belgrado, che incentiva la costruzione di case nell’enclavi. Cosa ci dici al riguardo?”
“Io spero che questa cosa si avveri, ma dubito fortemente che chi vive in Serbia possa tornare effettivamente in questo posto e viverci. Vedete, alcuni tornano, costruiscono la casa con i soldi di Belgrado e con gli aiuti di alcune Ong internazionali. Finita la casa, la rivendono e tornano in Serbia. Qui per noi non c’è più nessuna speranza. Appena finiranno gli studi, le mie figlie le manderò via da qui. In Svizzera o magari in Italia. Non voglio che debbano subire le umiliazioni e le angherie che abbiamo sopportato noi per anni…”
“Scusa Dragan, vorrei tornare a parlare del contingente Nato…”
“Vi racconto un episodio molto significativo di come gli americani agivano nei riguardi della nostra popolazione… All’indomani della guerra noi eravamo costretti a fare la spesa alimentare in Serbia. Per motivi di sicurezza era obbligatorio andare tutti insieme con lunghe carovane di automobili incolonnate e con tre pattuglie americane di ‘scorta’ messe una all’inizio, una in mezzo e una in coda. Prima della partenza ogni macchina veniva setacciata centimetro per centimetro per controllare che non ci fossero armi. Succedeva però, e succedeva spesso, che all’altezza dei villaggi albanesi, passata la pattuglia americana d’apertura, una macchina irrompeva tagliando la colonna e aprendo il fuoco ad alzo zero facendo decine di feriti e di morti. In tutte queste occasioni mai gli americani hanno aperto il fuoco o difeso la nostra gente. Mai hanno arrestato un solo terrorista, mai ne hanno parlato pubblicamente o condannato il gesto. Io resto ancora fermamente convinto che il controllo iniziale delle nostre automobili fosse a garanzia degli albanesi: un modo per consentire loro di svolgere in estrema tranquillità la loro mattanza quotidiana al fine di alimentare la politica del terrore”
“Ma Dragan, come è possibile tenere sotto silenzio una cosa del genere?”
“Tutti erano e sono al corrente di queste operazioni di macelleria. Lo sapevano i servizi americani, lo sapeva la Nato, lo sapeva l’Onu’’.
“Quindi lo sapevano anche gli italiani?”
“Sì, certo”
“E perché nessuno è intervenuto?”
“Non potevano perché gli americani li stoppavano nel momento dell’intervento. Vedete, nella mia collaborazione con i carabinieri italiani ci è capitato più volte di seguire un terrorista dell’Uck magari per mesi, raccogliendo tutte le informazioni a suo riguardo fino a scoprire dove nascondeva le armi che dovevano essere sequestrate. Il giorno prima di operare l’arresto e il sequestro però giungeva una telefonata da parte dei comandanti statunitensi che bloccavano l’operazione…Gli americani qua si sono comportati come bestie, senza nessun rispetto per la dignità umana. Ci sono centinaia e centinaia di episodi gravi avvenuti in questi anni. Una volta scoppiò una feroce rivolta serba contro il contingente Nato che per l’ennesima volta aveva fatto irruzione violenta nei locali del centro di Metrovica, spaccando vetrine e picchiando anziani e donne. La rivolta scoppiò furiosa e fu sedata solo dall’intervento dei carabinieri che si frammisero tra i serbi e gli americani. I serbi hanno sempre visto negli italiani persone rispettose e ligie al proprio dovere e soprattutto equidistanza tra le parti in causa e parità di trattamento: la loro presenza in campo durante la rivolta bloccò tutto proprio perché nessuno dei rivoltosi voleva prendersela con il contingente italiano”
“Ma adesso gli americani?”
“Non si vedono più in giro da un bel po’. Sono rintanati nelle loro caserme e sono odiati da tutta la popolazione”
“Ma secondo te perché gli americani hanno scatenato questa guerra?”
“Sicuramente la zona è strategicamente interessante perché crocevia per l’Europa, e il fatto che gli Usa abbiano una base di 800 ettari qui sta anche a indicare che hanno intenzione di restarci a lungo.
Poi è risaputo il fatto che finanziamenti molto importanti provengano da Stati musulmani del Medio Oriente, e la cosa la vedi anche dai tanti minareti nuovi e dal fatto che nessun albanese lavora”
“Non è che è un luogo comune?”
“Ma quale luogo comune? Guarda le loro terre: sono tutte abbandonate, nessuno le coltiva. Voi state a Metrovica giusto? Guardate il nord e il sud, attraversate il ponte e troverete a tutte le ore del giorno i bar strapieni e la terra morta. Non lavorano per via dei soldi che arrivano a getto continuo dall’Arabia Saudita”
“Cosa ne pensi di Milosevic?”
“Al di là di alcuni errori compiuti è stato un bravo presidente, tant’è che oggi sono molti a rimpiangerlo. Anche quei pochi albanesi onesti…”
“Arkan?”
“Più che un patriota, un criminale che faceva affari sporchi indifferentemente con serbi o albanesi”

La moglie di Dragan è morta quattro anni fa per un cancro: la causa della sua morte improvvisa è attribuibile ai bombardamenti all’uranio impoverito avvenuti lungo il territorio nella regione di Gracanica. Da allora è lui che cresce da solo i suoi 6 figli e pensa ogni momento a come portarli via da questa posto. Quando ci alziamo e lo ringraziamo per il tempo donatoci, ci dice sorridendo: “Non mi dovete ringraziare, sono io che ringrazio voi, amici miei”

Torniamo verso casa. E’ la sera di Capodanno e in giro ci sono tanti ragazzi vestiti bene che sorridono e si divertono. Sembra una serata di festa normale in qualsiasi città d’Europa. Con Fabio, Giò e Stefano decidiamo di fermarci a cenare nell’unico posto aperto che c’è. E’ un posto orribile stretto e lungo e dalle pareti rosa. Tre poster sbiaditi di donne e uomini felici, una piccola televisione che sprigiona musica serba a volume altissimo e poi un fumo talmente intenso che teniamo la porta aperta qualche secondo prima di ordinare per poi sederci… In fondo al locale c’è un bancone vetrina con carne esposta e dietro c’è il signore che non parla una parola d’inglese ma che ci sorride mentre ci prepara i panini e ci vede sistemare il tavolo. Il posto è talmente stretto che occupiamo l’intero corridoio, tanto non verrà nessuno stasera. Ci siamo solo noi 4, il padrone del ristorante e sulla strada gruppetti di ragazzini che accendono botti e corrono via divertiti…

Per strada poi, mentre torniamo in albergo tra fuochi d’artificio, fontane di colore e varie piccole esplosioni, incrociamo una camionetta di soldati della K-for: sono greci. Ci salutano e ci fanno gli auguri. Anche qui è Capodanno e c’è voglia di normalità, di divertimento e di spensieratezza, e domani mattina quando partiremo per Sarajevo la strada sarà tutta nostra.

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