sabato 20 Luglio 2024

L’inferno iracheno

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A cinque anni dall’assassinio del legittimo Capo di Stato la “liberazione” è bevuta fino alla feccia

I boia stessi, sciiti, che lo insultano e gli gridano ”vai all’inferno”, altri presenti che lo provocano scandendo i nomi dei leader religiosi sciiti da lui più odiati. L’esecuzione del deposto dittatore iracheno Saddam Hussein, il 30 dicembre 2006, sarà ricordata per i suoi aspetti brutali che, se non arrivarono alla barbarie del linciaggio del colonnello libico Muammar Gheddafi, contribuirono
comunque a perpetuare gli odii tribali e interconfessionali che continuano ad avvelenare l’Iraq dopo la partenza delle ultime truppe Usa.
In particolare tra gli Sciiti e i Sunniti, ai quali apparteneva lo stesso Saddam. Lo stesso primo ministro sciita Nuri al Maliki, che aveva insistito perché fosse eseguita senza indugi la sentenza capitale, emessa nemmeno due mesi prima, ebbe ad esprimere in seguito rammarico per quello che era successo nella sala dell’impiccagione, in una caserma dei servizi segreti militari nel quartiere sciita di Khadimiya a Baghdad. E l’allora presidente Usa George W. Bush, che aveva accolto
l’esecuzione come ”un atto di giustizia”, ne criticò duramente qualche settimana dopo le modalità, definendole ”un errore”.
Cinque anni dopo, gli attentati che continuano a insanguinare il Paese e le tensioni politiche tra gli sciiti di Maliki e il blocco sunnita-secolare Iraqiya dell’ex premier Iyyad Allawi fanno temere che
l’Iraq possa nuovamente precipitare nei tempi più bui della guerra intersettaria del 2006 e 2007. Catturato nel dicembre del 2003, otto mesi dopo l’invasione americana che ne aveva provocato la caduta e cinque mesi dopo l’uccisione dei suoi due figli, Uday e Qusay, Saddam Hussein comparve per la prima volta davanti ai giudici nell’ottobre del 2005. Ma fece in tempo ad essere condannato per ‘crimini contro l’Umanità’ solo in relazione alle esecuzioni di 148 sciiti a Dujail, compiute nel 1982 per rappresaglia ad un attentato subito in questo villaggio 40 chilometri a nord di Baghdad.
La sua morte, a 69 anni, impedì che potesse presenziare ad altri importanti processi, alcuni dei quali avrebbero potuto toccare aspetti delicati delle sue passate relazioni amichevoli con l’Occidente.
Le ultime parole di Saddam furono una maledizione contro ”traditori, americani, spie e persiani”. Entro poche ore dall’impiccagione, violenti disordini scoppiarono nelle città sunnite di Falluja, Tikrit e Ramadi, mentre in quelle sciite di Najaf e Bassora si festeggiava. Nel cuore della notte successiva il corpo veniva sepolto in una sala accanto a una moschea di Awja, il suo villaggio natale vicino a Tikrit, mentre centinaia di fedelissimi vollero che la bara fosse aperta per poter baciare il loro defunto leader e decine di uomini sparavano in aria in segno di saluto. Cinque anni dopo quell’esecuzione, le ferite nell’Iraq che cerca faticosamente un futuro non sono ancora rimarginate.
A cinque anni dall’assassinio del legittimo Capo di Stato la “liberazione” è bevuta fino alla feccia. Ringraziate Usa, Inghilterra, Iran e Israele, alleate nella guerra come nello scempio di poi.

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