Home Storia&sorte Addio a un eroe

Addio a un eroe

0

da Sette, magazine del Corriere della Sera, n° 38 di venerdì 18 settembre 2015, pag. 16

Se n’è andato a metà dell’estate, nel disinteresse generale, uno degli ultimi eroi di guerra italiani. Si chiamava Emilio Bianchi, aveva centotré anni, e aveva affondato la Valiant accanto a Luigi Durand de la Penne nel porto di Alessandria d’Egitto, infliggendo agli inglesi un duro colpo.

Sono andato a rivedermi gli appunti dell’intervista che gli feci per il Corriere nella sua casa dell’entroterra della Versilia, alla vigilia del Natale 2003. La sua storia di marinaio era cominciata in uno dei punti d’Italia più lontani dal mare, l’alta Valtellina. «Avevo visto un manifesto a Sondalo, il mio paese: arruolati, girerai il mondo. Era la prima volta che il segretario comunale riceveva una domanda per la Marina. Avevo diciassette anni, ero avanguardista, ma di politica sapevo poco: volevo l’avventura che avevo letto nei romanzi di Salgari e Stevenson. Divenni incursore. Ci allenavamo a penetrare nel porto di La Spezia, all’insaputa delle sentinelle, che non solo non sapevano delle esercitazioni ma neppure della nostra esistenza».

La prima missione è a Gibilterra, accanto a nomi leggendari: Teseo Tesei, Gino Birindelli, e appunto Luigi Durand de la Penne, con cui Bianchi sale a cavalcioni del siluro a lenta corsa, in gergo maiale.

«Tutti e tre vanno in avaria. Il nostro affonda lentamente. Comincia a mancare l’aria. Scendiamo molto sotto i trenta metri, considerati allora il limite di sopravvivenza. Risaliamo e nuotiamo sino alla costa spagnola, dove attendono gli agenti segreti che ci riportano in Italia. Veniamo ricevuti da Mussolini. Non capiva molto delle tecniche subacquee, ma ne era affascinato. Riprovateci, disse».

«L’attacco ad Alessandria era programmato per la notte tra il 17 e il 18 dicembre 1941, ma il mare burrascoso indusse a rimandare alla notte successiva. Passiamo indenni attraverso i campi minati. Tre o quattro miglia a est dell’ingresso del porto saliamo sui maiali. De la Penne è a prua, con la testa fuori dell’acqua, e respira quasi sempre l’aria atmosferica; io sono a poppa, una spanna sotto il pelo dell’acqua, e respiro la miscela del sacco-polmone (allora non c’erano bombole). Arriviamo alla rete che protegge il porto proprio mentre gli inglesi la stanno aprendo: un colpo di fortuna. Ci infiliamo nella scia di tre cacciatorpediniere. Fino all’ostacolo imprevisto. La Valiant, il nostro obiettivo, è protetta da una seconda rete. De la Penne la scavalca e comincia a tirare il maiale, io lo spingo, ma qualcosa lo trattiene, non va più avanti né indietro; salgo in piedi sulla relinga, il cavo che lega la rete alle boe, insisto, fino a quando non si sblocca. Ora ci siamo quasi. Urtiamo nello scafo, comincio a tastarlo con la mano, ma il maiale va in avaria e comincia ad affondare. Mi viene ordinato di controllare se qualcosa ha inceppato le eliche, obbedisco anche se comincio a sentirmi male, non trovo nulla. Scendiamo sul fondo, a circa dodici metri di profondità. De la Penne risale in perlustrazione, poi torna giù. Io sto sempre peggio, da troppo tempo respiro la miscela, avverto i sintomi dell’intossicazione da ossigeno: mi gira la testa, mi sento mancare. Risalgo appena in tempo e resto qualche secondo a galla. Sono proprio sotto bordo e gli inglesi mi vedono subito. Puntano un riflettore. Raggiungo la boa cui è ancorata la nave e sto lì, come un gabbiano, ad aspettare. Ma del mio contributo la relazione ufficiale non parla».

«Ci catturano. Due ufficiali, gli unici che sanno l’italiano, ci interrogano separatamente. Nessuno racconta nulla. Ci chiudono in una cala sotto la linea di galleggiamento. La nave salta in aria. Ce la caviamo. Ci portano tutti in un campo di concentramento in Palestina. Progettiamo la fuga, scaviamo un tunnel dal gabinetto fin sotto il primo reticolato, ma l’evasione fallisce…».

Bianchi rimarrà nel campo sino al ’45. «Non me la sono sentita di passare dalla parte degli inglesi».

Lamentava che la storia ufficiale non menzionasse il suo ruolo; che peraltro dopo quell’intervista gli venne riconosciuto da Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica, e dal suo consigliere militare, l’ammiraglio Biraghi, ovviamente senza alimentare polemiche del passato. Quello che vorrei salvare di lui è l’idea che la casa di un eroe potesse essere un appartamento al pianterreno, senza cimeli, alla periferia di un borgo dell’entroterra della Versilia, dove tra l’albero di Natale e il bastardino Poldo solo un soldatino di stagno con respiratore e sacco-polmone ricordava la grande impresa dei marinai italiani. 

Nessun commento

Exit mobile version