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Aframerica?

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Gli Usa ci vogliono fuori dall’Africa

Con la fine della Guerra Fredda, l’Africa sub-sahariana è apparsa come un “problema” estraneo agli obiettivi degli Stati Uniti. L’agenda di Washington pareva focalizzata su Europa, America Latina e Medio Oriente. L’Africa era semmai attenzionata per la sua parte settentrionale, quasi più collegata al Medio Oriente che ai destini del continente di cui fa parte. E l’intera regione, con le sue criticità, le sue crisi e le sue lotte intestine appariva come un luogo enorme, ricco, potenzialmente decisivo ma al contempo troppo problematico e lontano dagli interessi americani. Una contraddizione, visto che nel continente sono presenti e combinati tra loro tutti gli elementi che caratterizzano la lotta tra potenze e la stessa politica estera degli Stati Uniti. Eppure la percezione che si è avuta nel corso di questi recenti decenni è che Washington abbia deciso quasi di non vedere troppo da vicino quanto accadeva in Africa.
Questa lontananza dal focus statunitense dai destini africani ha iniziato a subire un sensibile cambiamento a partire dal nuovo millennio. L’impegno Usa in Africa non poteva né può essere paragonato a quello avuto nelle “infinite wars” del Siraq o dell’Afghanistan. Così come non è possibile paragonare la presenza nel cosiddetto “continente nero” con l’impegno militare in Europa o nel Pacifico. Tuttavia, sarebbe scorretto credere che l’occhio di Washington non si sia concentrato anche su questo immenso territorio. E la prova di questo rinnovato interesse verso l’Africa da parte degli Stati Uniti è data da una serie di elementi che, combinati tra loro, danno un quadro molto interessante della sfida tra superpotenze nella regione africana.

La svolta dopo l’11 settembre
Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il disimpegno americano dall’Africa ha subito una netta frenata. Dal 2007, sotto la presidenza di George W. Bush, è stato costituito Africom, il comando per l’Africa delle forze armate americane. Una novità che ha manifestato in modo cristallino l’interesse strategico degli Usa per il continente, a tal punto che il Pentagono ha istituito un comando unico per tutte le operazioni in Africa quando in precedenza faceva parte di tre comandi geografici distinti, tutti concentrati su altri fronti.
La costruzione di un comando per l’Africa è andata in parallelo con un progressivo aumento dell’impegno militare di Washington nel continente. In primis per la guerra al terrorismo di matrice islamica, che rappresenta la piattaforma più importante su cui realizzare (ancora oggi) le principali operazioni belliche nel continente. Dal Corno d’Africa fino alle diverse missioni più o meno segrete in Sahel e in alcune aree dell’Africa equatoriale, gli Stati Uniti, anche nei recenti momenti di maggiore distacco da destini africani, non hanno mai abbandonato il continente. E la morte dei berretti verdi in Niger, uno degli episodi più noti dell’oscuro impegno americano in questa macroregione, è stato un evento che, insieme ai raid contro Al Shabaab in Somalia, ha più attirato l’attenzione degli osservatori su quanto fatto da Washington in queste aree.
L’impegno statunitense in Africa ha poi subito un’ulteriore accelerazione (e anche una sostanziale modifica della sua percezione e degli obiettivi a lungo termine) con l’inserimento del continente nella grande sfida con Cina e Russia. Le due superpotenze “orientali” hanno infatti costruito nel corso di questi ultimi anni una forte strategia di penetrazione in tutta la regione. Pechino attraverso lo sfruttamento dei propri mezzi economici e tecnologici, Mosca soprattutto legano gli antichi rapporti di epoca sovietica alle nuove leve delle materie prime, delle armi e dei mercenari.
La risposta americana, in particolare confermata sotto la nuova amministrazione Biden, è stata quella di un ulteriore aumento dell’interesse verso l’Africa. Interesse che, come scritto dall’ambasciatore Charles R. Stith per il Council of American Ambassadors, non è solo militare e politico ma anche economico. Sono infatti in molti, a Washington, a iniziare a credere che l’Africa non sia solo un insieme di problemi insormontabili su cui l’America è tenuta a intervenire in qualità di potenza “benefica”, ma un mercato potenzialmente enorme e che deve essere escluso dall’ambizione di altre potenze in grado di soddisfare le richieste africane.

L’ombra di Pechino
In questo senso, interessante anche l’allarme rilanciato di recente dall’Economist sul fronte dell’espansione cinese per quanto riguarda i porti dell’Africa. A novembre, spiega la rivista, “il rapporto annuale del Pentagono sulla potenza militare cinese ha individuato 13 paesi in cui, a suo avviso, la Cina ha probabilmente preso in considerazione la possibilità di individuare altre basi. Si va dal Tagikistan in Asia centrale all’Angola sulla costa atlantica dell’Africa.”. Il Wall Street Journal ha di recente confermato i sospetti dell’intelligence Usa su una possibile presenza navale cinese in Guinea Equatoriale. Un’ipotesi che preoccupa il Pentagono non tanto per le ripercussioni sulla sicurezza nazionale, quanto per la possibilità – sottolineata da illustri analisi – che la forza della Marina cinese in acque lontane dall’Asia faccia sì che la Us Navy distolga qualche risorsa dall’Indo-Pacifico.

L’Africa dunque non sarebbe soltanto un immenso territorio di sfida tra potenze per l’accaparramento di risorse, materie prime e mercati, ma anche un enorme diversivo per una sfida mondiale che non conosce confini o territori “vergine”. Questo continente, imperversato da guerre fratricide, tribali, religiose e nazionali, è diventato nel tempo un luogo dove tutte le forze coinvolte nel grande gioco internazionale si contendono aree di influenza. Ma rischia anche di trasformarsi in un immenso e tragico palcoscenico di dispute distanti e che trovano il loro modo di concretizzarsi anche in questa grande area a sud dell’Europa e tra Oceano Atlantico e Indiano.

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