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Alessandro Ricci

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Presente!

Alessandro, mi sono accorto che non ho neanche una tua foto. Maledetta abitudine mia di non pensare a immortalare gli attimi, forse per abito mentale legato alla latitanza.
Penso che non ti ho mai detto quanto ti abbia ammirato. Ti ho conosciuto quasi per caso, un giorno che camminavo per via del Corso e tu eri fermo a un semaforo con il tuo taxi. Mi hai riconosciuto, hai suonato, mi hai chiamato, mi hai detto che eri felice di avermi incontrato e mi hai offerto di portarmi in giro quando ne avessi avuto bisogno. Ne approfittai tre o quattro volte, quando decollavo da Ciampino la mattina presto. In cambio ti offrivo la colazione, ma furono più le volte che la pagasti comunque tu.
In quelle corse mattutine mi raccontasti con molto pudore le difficoltà a cui avevi dovuto far fronte, le incombenze familiari che assolvevi e le prospettive ardue e angoscianti che avevi davanti. Mi apristi anche l’animo puro del tuo sentimento militante e lo facesti con molta umiltà.
Prendemmo l’abitudine di vederci di tanto in tanto per un aperitivo dalle parti mie. Tu ne eri fiero ed entusiasta e volevi apprendere da me, ma ero anche io che apprendevo da te per la tua semplice e umile purezza, ché cultura e civiltà è anche e soprattutto quello.

Poi, lo scorso anno, mi telefonasti ridendo, dicendomi che ti avrebbero operato d’urgenza per un edema al cervello. M’informai tra i medici camerati per trovare qualcuno a cui affidarti al Sant’Andrea. Non ne trovai ma Francesco Bianco mi suggerì di telefonare a Francesco Storace che doveva conoscere qualcuno. Era vero. Io praticamente Storace non lo conoscevo: con te si comportò benissimo, ripetutamente, anche a costo di farsi dei nemici. Gliene fosti sempre grato. Come lo fosti a me che, in fin dei conti, avevo fatto poco.
Non appena rimesso in piedi m’invitasti a cena fuori insieme a mia moglie. Mi spiegasti che il tumore c’era ancora e poteva scatenarsi in qualunque momento. “Non fa niente, mi farete un gran bel Presente!” mi dicesti allora e mi ripetesti più tardi.
Poi la bestia si scatenò sul serio e ti corrose impietosamente, tra l’altro nell’ingeneroso cinismo di alcuni dirigenti sanitari che ritenevano che gli tenessi inutilmente occupato un letto.
Hai sofferto le pene dell’inferno ma hai mantenuto sempre la dignità in condizioni in cui quasi tutti la perdono. Mi dicesti una volta che essere camerati significa saper affrontare le difficoltà peggiori ma che, forse, la prova che ti era stata imposta era eccessiva.
Conobbi tua madre, una donna forte come te, dignitosa forse persino di più, che ha affrontato ogni istante di un’agonia senza speranze con un amore impareggiabile.
Ero in imbarazzo. In imbarazzo per non essere riuscito a fare nulla di più, in imbarazzo a chiamare perché si teme sempre di mettere inutilmente il dito nella piaga.

“Camerata Alessandro Ricci, Presente!”: era la voce della tua giovanissima figlia, della perla dei tuoi occhi, della fiamma del tuo cuore, a chiamare il nostro ultimo saluto a te, uomo esemplare.
Ero stato in giro i giorni prima: Santander, Torino, Genova.
Ero ritornato proprio la mattina del funerale. Eri andato via da trentasei ore. Se fosse successo la vigilia non avrei potuto essere presente e mi sarebbe spiaciuto parecchio.
È sciocco e irriverente, ma mi piace pensare che tu mi abbia aspettato.
Che il cielo ti sia lieve. Tu hai sempre creduto che frequentarmi ti arricchisse, ma mai quanto il frequentarti abbia arricchito me, camerata!

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