La capacità del pregiudizio filoamericano di propagarsi a macchia d’olio all’interno della mentalità collettiva è strettamente legata alla sua elasticità. C’è un americanismo “di destra”, uno “di sinistra”, uno ideologicamente neutrale.
A proposito di pregiudizi
“Quello che mi ha sempre irritato […] è il perenne bambinismo, l’ingenuità degli americani. Pensano che tutti siano come loro, non concepiscono come legittime teste diverse dalle loro, mondi non uguali al loro. […] Gli americani non imparano mai nulla, anche ai più alti livelli esprimono un’incultura disperante, per cui credono che tutti siano simili a loro. Che il mondo insomma sia popolato di americani perfetti, loro, e di americani imperfetti, tutti gli altri, ma che comunque si possono intendere. In tutti gli anni che ho vissuto in America, questa è stata la mia esperienza costante. E anche la causa delle loro costanti sconfitte in politica estera”.
Chi può aver pronunciato parole così ruvide sulla mentalità diffusa nella popolazione che abita il paese più forte militarmente, più ricco economicamente, più influente politicamente e più progredito tecnologicamente del mondo? C’è da scommettere che almeno nove su dieci fra coloro che hanno letto le righe che precedono si stanno ponendo un solo interrogativo prima di rispondere: la prosa citata appartiene a un intellettuale della sinistra radicale o a un suo omologo di destra? A un redattore di “Le Monde diplomatique” o a un esponente della Nouvelle Droite di Alain de Benoist? Nell’incertezza, a qualcuno verrà la tentazione di cavarsela con un’ipotesi generica, del tipo: da qualunque parte vengano, sono idee che possono espresse soltanto da un antiamericano, uno dei tanti affetti da quel deplorevole vezzo ideologico che consiste nell’attribuire agli Stati Uniti d’America tutte le nefandezze della nostra epoca e nel farli di continuo sedere sul banco degli imputati per invidia, rancore, nostalgia o, comunque, per voluta incomprensione del loro ruolo di difensori della pace, della sicurezza e della prosperità dell’Occidente.
Chi la pensa così, prenda nota che ad emettere i giudizi riportati in apertura è stato Giovanni Sartori, insigne scienziato politico, liberale a pieni carati, da oltre un quarto di secolo di casa più a Central Park che nel natio Oltrarno fiorentino, nell’intervista rilasciata a Ranieri Polese del “Corriere della Sera” sabato 10 novembre 2001, pubblicata sullo sfondo fotografico di un bandierone stars and stripes, nel contesto della campagna di supporto agli Usa avviata dal quotidiano milanese dopo gli attacchi subiti l’11 settembre. A quanto pare, la realtà è spesso più complessa dell’idea che ci se ne fa, e qualche argomento “antiamericano” può sfuggire di bocca anche a personaggi insospettabili, che, semplicemente, non temono di sfidare i tabù quando li reputano infondati.
Questa verità elementare è di difficile comprensione per tutti quegli osservatori, analisti e commentatori – numerosissimi – che da tempo, ma soprattutto negli ultimi mesi, si stracciano le vesti e gridano al delitto di lesa maestà ogniqualvolta compare all’orizzonte un giudizio negativo che abbia ad oggetto gli Stati Uniti d’America, la loro politica, il loro governo, la loro cultura e, peggio che mai, gli stereotipi comportamentali dei loro abitanti, meglio individuati con l’espressione american way of life. Per tutti costoro, ogni presa di posizione che vada in questa direzione è riflesso di un “pregiudizio”, preannuncio di sventurate inclinazioni totalitarie, indizio di oscurantismo antimoderno.
Ora, a prescindere dal fatto che il termine “pregiudizio” andrebbe bandito da qualunque dibattito sen