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Anime tormentate

Eccellente romanzo di Cesare Ferri

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Solo un pazzo, solo un poeta!
Recentemente, in una giornata d’immaturità senile tra Peter Pan e Gianburrasca, vissuta un po’ nello spirito di Amici Miei, ci siamo reincontrati con Cesare Ferri a poca distanza da dove vide i natali Giuseppe Verdi.

Cesare mi ha fatto dono del suo più recente romanzo Anime tormentate, edito come sempre da Settimo Sigillo.

Ve ne parlo senza parlarvene perché a nulla servirebbe descrivere la trama se si omettesse il finale a sorpresa o qualsiasi indizio che lo lascerebbe supporre.
Perfino una recensione classica sarebbe superflua, essendo stato detto davvero tutto nella postfazione del volume, scritta dal professor Paolo Scolari.
Vi direi: leggetelo e basta, ché non ve ne pentirete!

Sarebbe però un eccesso di presunzione, ergo ve ne parlerò, senza parlarvene direttamente, il che in realtà significa proprio che ve ne parlo.

È un romanzo in cui diverse anime tormentate si sfiorano, s’incontrano, si perdono o si scoprono a se stesse. Forse non è un azzardo definirlo romanzo neo-decadentista.

Ricordo che il Decadentismo fu un genere di Romanticismo che, secondo la critica letteraria, si oppose al Positivismo esprimendo forme diverse di pensiero e di arte.
Tra i grandi che sono accostati a questa categoria ci sono Bergson, Schopenhauer, Nietzsche. In Italia vi sono inseriti in particolare tre autori: Pascoli, D’Annunzio e Pirandello.

Possiamo ben dire che la presa di coscienza della decadenza era la base per un riscatto di-sperato, anzi, direi, post-sperato, fondato sul nichilismo attivo, sul pessimismo nei riguardi della natura umana, debole quando non interamente mobilitata nelle sue fibre al fine di rialzarsi (o anche di immolarsi) tra rovine che non vanno imbellettate.

Basta con il “vestire gli ignudi”! Qualcosa di analogo troveremo ben più tardi in un altrove con cui ci si può ricongiungere in alto e nell’essenza: ne La pagoda d’oro di Mishima in cui l’aedo della tradizione giapponese brucia il simbolo del culto.

Chi sia fresco di studi letterari, o ne abbia precisa reminiscenza, sa che si attribuiscono ai tre maggiori decadentisti italiani una figura mitica che è a base delle loro rispettive opere: il Fanciullino per Pascoli, il Superuomo per D’Annunzio e l’Esclusa per Pirandello.

In questo libro per tutti e per nessuno scritto da Cesare Ferri, tutte e tre le figure coesistono.

Potremmo dire che la predominante è quella dell’Esclusa. Un termine che in realtà è messo al femminile perché tratto dalla figura femminile di Così è se vi pare, ma spesse volte al maschile in Pirandello e anche oggi in Ferri.

È proprio la figura esclusa quella che mette sotto sopra (nel senso di subliminarla) la vita del viandante esistenziale di questo romanzo. E lo fa nella direzione superomistica che, notoriamente, si protende verso il fine rendere lo spirito fanciullo.

C’è molto di Pirandello in questo mettere a nudo la miseria della commedia umana e nello sferzarla.

Pirandello, sia nelle opere che nella vita, ne esce sempre con un trionfo interiore che si manifesta nella solitudine, nel romanzo di Cesare Ferri c’è invece qualche spiraglio positivo.

Non poteva mancare da parte sua il richiamo alla musica classica, come sottofondo della vita e controparte indispensabile della filosofia. “Non potrei vivere senza suonare” dirà una fugace ma portante comparsa-protagonista di questo romanzo esistenziale.

C’è tutto il conclamato amore di Cesare per quel periodo bohémien di grande fermento che vivificò l’Europa partendo dalle chambres de bonne parigine e che abbiamo ancora sottotraccia come linfa della Nuova Europa, sorta sulle rovine del formalismo fossile e moralistico.

Ci sono tutti gli ingredienti per quest’ascesi letteraria, filosofica, esistenziale e irrimediabilmente bambina.

Che dire infine dell’Escluso che sta alla base di questa rigenerazione? C’è proprio una frase federiciana sintetizza come altrimenti non si potrebbe:

Solo un pazzo, solo un poeta!

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