Comunisti e protosovranisti agli ordini dello Zio Sam contro Craxi e l’indipendenza italiana
Il 30 aprile del 1993, qualche ora prima che a Roma Bettino Craxi diventi oggetto del drammatico lancio di monetine, «il numero due dei giudici milanesi», il cui nome è coperto da omissis, incontra a Milano il console statunitense Peter Semler. È contrariato rispetto alla decisione del Partito democratico della sinistra, presa il giorno prima dal segretario Achille Occhetto, di ritirare la delegazione degli ex comunisti dal neonato governo Ciampi, in segno di protesta contro le sei autorizzazioni a procedere contro Craxi che la Camera ha appena respinto.
«È una decisione assunta sull’ onda dell’ emotività, che destabilizza l’ esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate», confida il magistrato al rappresentante degli Usa nel capoluogo lombardo, sottolineando come «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore del genere».
La prospettiva delle urne prima dell’ approvazione della riforma elettorale, a quanto pare, spaventa i magistrati di Tangentopoli o quantomeno il loro «numero due»; preoccupato – annoterà il console – dalla possibilità che il voto con due leggi per Camera e Senato generi «un disastro», con Craxi che «verrebbe financo rieletto». Il report riservato inviato a Washington si conclude così: «Una manifestazione promossa della Lega e dalla Rete (il movimento di Leoluca Orlando, ndr ) contro il voto (di Montecitorio su Craxi, ndr ) è in corso in piazza Duomo». Qualche ora dopo a Roma, davanti al Raphael, sarebbe scoccata l’ ora tragica delle monetine al leader socialista.
È quanto emerge da uno dei tanti cablogrammi declassificati dal Dipartimento di Stato Usa che lo storico Andrea Spiri ha scoperto e raccolto in un saggio contenuto in un libro di prossima uscita («La seconda repubblica – Origini e aporie dell’ Italia bipolare», curato insieme a Francesco Bonini e Lorenzo Ornaghi, edito da Rubbettino). Una sequenza di «confidential report» che inizia nel 1992, e che mostra uno spaccato inedito della transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica vista da Washington con gli «occhi» e le «orecchie» dell’ ambasciata Usa di via Veneto e del consolato di Milano.
«Il vecchio ceto politico in Italia si accorge del collasso di un sistema che ha edificato e gestito per decenni», scrive l’ ambasciatore statunitense in Italia Peter Secchia in un report riservato trasmesso a Washington il 15 ottobre 1992.
Mani Pulite procede senza sosta ma c’ è chi pensa che la Prima repubblica si possa ancora salvare su un’ Arca e individua anche il Noè: il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che dal Quirinale aveva «picconato» anche la Dc, incassando un significativo dividendo in termini di popolarità.
Una «fonte ben introdotta» avverte l’ ambasciata Usa dei «movimenti» in corso a Palazzo. E riferisce di una «cena segreta» al Grand Hotel, organizzata il 12 ottobre 1992 dal segretario del Partito liberale Renato Altissimo. Seduti allo stesso tavolo ci sono «il magnate dei media Silvio Berlusconi, il petroliere Gian Marco Moratti, l’ industriale Giovanni Rossignolo», più il giornalista Paolo Guzzanti. Tutti individuano in Cossiga, «anch’ egli presente all’ incontro (), l’ uomo dal profilo giusto per guidare un’ operazione di rinnovamento». La storia andrà diversamente e il protagonista della nuova fase – un anno e mezzo dopo – sarà un altro dei commensali, Berlusconi. La cui partecipazione a quella cena, nell’ ambasciata Usa, non era passata inosservata. «La presenza di Berlusconi», annota Secchia, «è particolarmente significativa in ragione della sua vicinanza a Craxi». E ancora: «Il Pli aderirebbe a questo gruppo (di Cossiga, ndr ) e Berlusconi si presenterebbe come candidato. La prossima riunione del gruppo si dovrebbe tenere il 4 novembre».
Nella primavera successiva, anno 1993, i resoconti della diplomazia Usa si arricchiscono di un nuovo filone: quello relativo a Giulio Andreotti.
Quando l’ ex presidente del Consiglio viene chiamato in causa da alcuni pentiti di mafia e iscritto nel registro degli indagati della Procura di Palermo, la linea telefonica Roma-Washington si fa rovente.
Clinton si è insediato alla Casa Bianca, l’ ambasciatore Secchia ha lasciato via Veneto e, nell’ attesa che il neo presidente Usa mandi il suo uomo in Italia (Richard Bartholomew), a presidiare la sede diplomatica c’ è l’ incaricato d’ affari Daniel Serwer. È lui che il primo luglio 1993 accoglie in gran segreto Andreotti, che aveva chiesto di essere ricevuto. La visita, è la regola d’ ingaggio degli americani, deve essere «riservata» e «non prestarsi ad alcuna strumentalizzazione politica». Traduzione: Andreotti ha la consegna del silenzio assoluto, gli Usa non vogliono che si sappia che il senatore a vita, indagato per mafia, è stato ricevuto. Di fronte a Serwer, il leader democristiano si difende dalle accuse. E l’ incaricato d’ affari scrive nel suo report: «Andreotti ha puntualizzato che negli anni ’70, nelle vesti di presidente del Consiglio, ha fatto trasferire i principali detenuti per mafia (incluso il pentito Buscetta, uno dei suoi attuali accusatori) da Palermo in un carcere di massima sicurezza.
Egli presiedeva il governo anche nel momento in cui il giudice Falcone fu portato a Roma come funzionario del ministero della Giustizia () La mafia – ha detto Andreotti – si sta vendicando di lui». Non mancano i momenti di tensione, durante il faccia a faccia. Il senatore a vita sospetta che dietro i suoi guai giudiziari ci siano «mafiosi americani», «spezzoni deviati dei servizi segreti italiani» e pure dello «United States Marshall Service», l’ agenzia federale e penitenziaria alle dipendenze del Dipartimento di Stato Usa. Gli interlocutori di via Veneto, a quel punto, gli chiedono se stia pensando «a un coinvolgimento del governo statunitense in questo disegno». E Andreotti risponde di no.