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Cadranno mille petali di rose

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Arriva l’autunno

Autunno, ormai. L’equinozio è imminente. La durata del giorno e della notte, al momento, si equivale. Presto, la bilancia comincerà a pendere sempre più velocemente a favore delle tenebre.
Autunno. Diversa luce, diversi colori. E diversi sapori. Ai quali la letteratura in genere presta meno attenzione. Forse perché quello del gusto è il più trascurato, e sottovalutato, dei sensi. Appare troppo materiale rispetto alla vista e all’udito. E gli stessi poeti preferiscono parlare di profumi, di sensazioni tattili, piuttosto che di sapori.
Eppure le cose hanno sapore. Non solo forma, colore, suono, odore. Sapore. E questo si imprime in noi in profondità. Diventa una riserva di memoria. Un deposito segreto. Dante, parlando dei duri anni dell’esilio, usa l’espressione “quanto sa di sale lo pane altrui”. Che si riferisce all’uso fiorentino del pane sciapo per bilanciare una cucina dai sapori decisi e forti. Esule, a Ravenna, Verona, forse in Francia, trova il pane salato. E questo contrasto di sapori diventa la memoria dell’esilio.
D’altra parte, per dire che una donna non è brutta, magari anzi è carina, ma che non ha fascino alcuno, si usava l’espressione “scipita”. Che è riferita ad esperienza del gusto. E se una ha un temperamento vivace, non privo di sorprendenti momenti di sensualità, si dice “piccante”. Scontata, usuale, l’espressione “dolce” in tutte le sue declinazioni. Compreso honey, miele, oggi sempre più in uso visto il dilagare dell’anglomania. E ancora, “amaro”, “aspro”, “acre”…
Insomma il gusto è uno strumento di conoscenza, esattamente come gli altri sensi. E il sapore un’esperienza non solo del corpo, bensì anche, e soprattutto, dell’intelletto. Dello Spirito. Chi riduce l’esperienza del gusto ad una mera sensazione superficiale nell’atto di ingurgitare cibarie, si nutre, certo, ma non sa mangiare. È come l’amante che punta solo all’attimo fuggente della eiaculazione. E tutto diventa solo squallore.
Ogni momento della vita, ogni esperienza, ogni stagione è legata, anche, ai sapori.
L’autunno si lega per me al sapore zuccherino dell’uva pizzutella. A quello anche troppo dolce dei cachi. E agli ultimi fichi di settembre, già venati di asprigno. Dolce, anzi dolcissimo, ma non privo di quel tanto di asprezza che reca sentore di morte. Il sapore dei funghi, che ha qualcosa già di decomposto. E quello, ben più intenso, del tartufo, che ti accompagna, poi, sino alle soglie dell’inverno. Così forte, coinvolgente, da non poter coesistere con altri sapori ed aromi. Sulle tagliatelle bianche, sulle uova al burro. Su un risotto leggero. Il tartufo vuole essere solo. È un’esperienza che si esalta nella solitudine. Della solitudine. Come la morte.
I gastrosofi, uomini come Brillat Savarin e il nostro Artusi, intuiscono la funzione gnoseologica del gusto. Le loro opere, a bene vedere, non sono semplici ricettari di cucina pur ben scritti. Sono narrazioni di viaggi, esperienze, conoscenze attraverso il gusto. Quando Artusi, che in quell’Italia fragile e da poco unita, parla degli usi per friggere, così diversi lungo tutta la penisola, ci fa capire della questione post unitaria, delle contraddizioni che ancora ci portiamo dietro, molto più di tanti, ponderosi e noiosi, trattati di storici e meridionalisti. Il contrasto fra il sapore del burro e quello dell’olio da solo rivela realtà sottaciute dalla retorica risorgimentalista.
Il gesto, quasi istintivo, di chiudere gli occhi quando si assapora un cibo o una bevanda, è, a ben vedere, rivelatore. Inconsciamente, cerchiamo di spegnere gli altri sensi, per esaltare al massimo quello del gusto.
Ed è così anche nel bacio. Gli occhi si chiudono, e le orecchie, per quei momenti, si ottundono. Ogni altra percezione viene azzerata. Se il bacio è vero, i due amanti non cercano altro. Non sentono altro. Solo le labbra che si incontrano, e, appena si schiudono, il sapore dell’essere amato che ne rivela l’intimità più profonda. Per questo il bacio è la forma più particolare di un rapporto. Qualcosa che va molto al di là del coito. È un incontro di sapori. Una fusione. Che solo di rado si può davvero sperimentare.
In Pretty Woman, l’incantevole prostituta interpretata da Julia Roberts dice “Faccio tutto, fuorché baciare” e Richard Gere risponde “Anch’io”.
Un’allusione a quel particolare mistero dei sensi che è rappresentato dal gusto. Da una chimica di sapori che si incontrano. E, o si respingono, o si fondono in un sapore nuovo. Che li riassume. E al tempo stesso li trascende. Giovan Battista Marino ha descritto questa esperienza del gusto nella quarta torre del Palazzo d’Amore. Dove, nel Giardino delle Delizie, viene descritta la Bocca. Strumento del gusto. Esperienza che viene dopo quelle della vista, dell’olfatto e dell’udito. E prelude a quella finale del tatto. Nel Giardino dei Trastulli.
Perché scoprire il sapore dell’Amata prelude a quella congiunzione che, per il grande poeta barocco deve farsi estasi spirituale. E condurre gli amanti ai cieli ed alla conoscenza.
Assaporo un fico, appena comprato dal mio fruttivendolo egiziano. Che mi ha assicurato, mano sul cuore, che certo sono gli ultimi. Ma dolcissimi ancora. È un frutto, o meglio un fiore grande, dalla buccia scura e morbida. Lo porto alla bocca così, integro. E lo mordo. Ne avverto la consistenza, il sapore intenso. Ahmed ha ragione. È dolcissimo. I semi mi si sciolgono sulla lingua. Il palato si sente come accarezzare. Chiudo gli occhi. E il sapore diventa più forte. Quasi assoluto. Un piacere, mentale ed oltre, intenso.
Comincio a capire ciò che il Marino voleva dire.
Mercoledì è l’equinozio. Incomincia l’autunno.

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