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C’era una volta il militante

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Ora è l’avvio di una carriera individuale

In un Paese strano come l’Italia, in un Paese straniero, anzi, per chi abbia anima e cervello e polmoni, la storia politica recente è stata letta sempre come un fenomeno di massa: come una bizzarra devoluzione, da uomini di pregio, onninamente citati come maestri di pensiero e di morale, a mezze calzette, ignoranti e avide.
E c’è del vero, benché De Gasperi fosse un nepotista formidabile e Andreotti mestasse in pentoloni inguardabili.
Ma nessuno, almeno che io sappia, ha rilevato, all’interno di questo decadere di tutto quanto si riferisca alla politica, la scomparsa di una figura individuale che, un tempo, della politica era l’asse portante: il militante puro. Questo eroico e un tantino romantico personaggio è stato, per decenni, l’anima delle sezioni di partito, l’avanguardia di un’idea, nei quartieri e nelle campagne, il braccio e la mente di mille piccolissime azioni rivoluzionarie, che rappresentavano la parte più viva e più popolare dell’impegno politico.
Che cuocesse salamelle alla “Festa dell’Unità” o che appiccicasse manifesti autoprodotti lungo i muri del suburbio, il militante puro era presente, attivo, felice di esserci e di fare: e mai e poi mai avrebbe messo in dubbio le parole dei capi, mai avrebbe sognato, in sudate lenzuola, di prenderne il posto, di scalzarli dalla seggiola, di fare, insomma, carriera.
Il militante era l’ultimo nella gerarchia e il primo sulla linea del fuoco: non sempre era politicamente preparato e, anzi, spesso la sua militanza nasceva da sentimenti semplici, da equivoci, magari. Era un soldatino, il militante e, in quella guerra minuscola che furono gli anni di piombo, da bravo soldatino seppe morire.
Ecco, oggi il militante puro non esiste più: è morto veramente, perché non c’è più nessuno che ne raccolga da terra il fazzoletto sporco di sangue o di sudore. E la politica è diventata spettrale, arido confronto di imbarazzanti manovre strategiche, che il nostro militante di un tempo, non avrebbe capito, prima ancora di rifiutarle.
La politica si fa in osceni dibattiti televisivi, dove politicanti e soubrettes parlano la stessa oscena lingua. I militanti, oggi, non militano: la loro non è milizia, non è l’impegno quotidiano, senza troppi ragionamenti, non è l’umile fatica dei semplici, ma l’insidioso manovrare degli arrivisti. Perché, oggi, la politica si fa per fare carriera: nessuno ci si dedica pensando di ritrovarsi, dopo decenni, a stampare con lo stesso ciclostile le stesse parole di lotta.
E il militante ha fretta: fretta di ascendere, di apparire, di vincere. Consigliere comunale, assessore, eletto in Regione, parlamentare, ministro: questo è il cursus honorum che pervade di sé i sogni dei nuovi militanti. E fare politica significa farsi le ossa nella pubblica amministrazione, in vista di promozioni e di responsabilità maggiori o passare dalla televisione locale alle majors, con cravatte sempre più artigianali: e maggiore potere, cela va sans dire, e maggiori prebende e strette di mano sempre più altolocate. Ma il nostro povero militante puro, attraverso la nebbia del tempo, scuote la testa e sorride: un sorriso malinconico, come quello di certe vecchie fotografie. Solo un pensiero, probabilmente, elabora, di fronte a quello che noi chiamiamo progresso, ma che è soltanto decadenza: che schifo!

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