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Chi vuol capire capisca: fattore K

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Pochi ultra contagiosi da ultra contagi

La pandemia di Covid-19 presenta un aspetto tanto particolare quanto inquietante: non si è abbattuta con la stessa intensità in ogni regione del mondo. I contagi e i decessi variano da Paese a Paese, da periodo a periodo. Si potrebbe obiettare che le differenze epidemiologiche derivino dalle diverse strategie messe in campo dai vari governi. Dal modello svedese a quello cinese, passando per il tracciamento tecnologico sudcoreano, ogni approccio avrebbe ottenuto risultati più o meno soddisfacenti in base alle misure adottate.
Eppure ci sono degli esempi che mettono a dura prova questa spiegazione. In Italia è avvenuto quasi tutto nei primi mesi dell’epidemia, e soprattutto in aree ben precise (Lombardia e Nord Italia), in Giappone non si è verificata alcuna catastrofe sanitaria mentre in Ecuador gli effetti peggiori si sono verificati a Guayaquil. Cosa contraddistingue l’andamento della pandemia? The Atlantic parla di fattore K, ovvero un fattore che stabilisce le modalità di diffusione del virus.
Due sono le modalità di diffusione di un virus. La prima: l’agente patogeno transita all’interno di una data popolazione in maniera costante, seguendo mediamente lo schema di “una persona infetta uguale un contagio”. La seconda: ci troviamo di fronte grandi raffiche di contagi per via di persone che infettano più soggetti in una volta sola.

Che cos’è il fattore K
Nell’ultimo caso sopra citato stiamo parlando dei super diffusori, ossia di individui infetti che per svariate ragioni riescono a contagiare molte persone. Un infetto seduto in un locale in cui ci sono molte altre persone, a distanza ravvicinata e senza un’adeguata areazione, può contagiare quasi tutti i presenti (così si diffonde il virus negli spazi chiusi). Ma, secondo alcuni studi, è pur vero che dall’altro lato potrebbero esistere numerose persone infette non in grado di contagiare altri soggetti.
In ogni caso una ricerca effettuata a Hong Kong ha rilevato che il 19% dei casi era responsabile dell’80% della trasmissione del virus, mentre il rimanente 69% era sostanzialmente innocuo. Detto altrimenti, e a detta di altri studi, dal 10 al 20% dei contagiati può essere responsabile dell’80-90% della trasmissione. Qual è, dunque, il punto focale del discorso? Esistono molte persone infette, segnalate tra i nuovi casi quotidiani, che in realtà potrebbero trasmettere pochissimo il virus. Là dove il Sars-CoV-2 ha trovato i super diffusori è invece riuscito a fare danni incalcolabili, disperdendosi praticamente ovunque. È proprio questo il fattore K indicato dagli esperti: il coronavirus alterna alta e bassa contagiosità.

Monitoraggio mirato
Se quanto affermato dovesse trovar conferma sul campo, avrebbe poco senso continuare a conteggiare i positivi all’interno di un’unica colonna. Per stroncare la corsa del virus, più che sparare nella mischia, sarebbe necessario individuare e isolare i superdiffusori. La logica di questo ragionamento è una: bisogna scovare quelle poche persone infette ma molto contagiose, cioè quei soggetti che contribuiscono a far crescere il fattore K. Si nota una certa somiglianza tra l’epidemia di Sars del 2003 e questa di Sars-CoV-2. Già, perché anche durante gli anni della Sars la maggior parte delle persone infette non trasmetteva il virus. A far scoppiare i focolai furono episodi di super diffusione.
Una malattia può diffondersi in due modi: seguendo un andamento deterministico oppure stocastico. Nel primo caso si tratta di una distribuzione lineare e prevedibile, mentre nel secondo tutto dipende dalla casualità. Di fronte a una traiettoria deterministica basterà guardare ai giorni passati per prevedere il futuro. Ma se abbiamo tra le mani un fenomeno stocastico il discorso è molto più complesso, perché gli stessi input – sottolinea ancora The Atlantic – non produrranno gli stessi output. In altre parole, con il coronavirus, che rientra tra i fenomeni stocastici, non si possono fare previsioni.
Ecco perché considerare soltanto certi valori (ad esempio R0) o adottare le stesse strategie utilizzate per arginare altre malattie, potrebbe non aver senso con il Covid-19. Il caso del Giappone è emblematico: i Paesi che hanno attuato restrizioni severe ignorando il tema dei super diffusori hanno rischiato di ottenere risultati sanitari insoddisfacenti. Tokyo, al contrario, ha imparato a intervenire chirurgicamente su quei pochi gruppi che determinano un’altissima contagiosità nella società. Con un esito più che positivo, a giudicare dai numeri dei suoi bollettini sanitari.

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