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Cifre e senso delle elezioni in Afghanistan

Le autorità occidentali e la stampa hanno cantato vittoria perché in Afghanistan la democrazia avrebbe sconfitto il terrorismo e la gente sarebbe andata a votare in massa. Ogni fonte riprende e amplifica la tesi che, acriticamente, passa così come reale, come corretta. Ma lo è davvero?

Cosa dicono in realtà le fonti afghane? Che avrebbe votato tra il quaranta e il cinquanta per cento degli elettori. In Occidente si prende con estrema disinvoltura per buona la cifra estrema e si dà così per scontato che un afghano su due abbia detto no ai talebani. Di fatto, considerato il controllo capillare e assoluto che il regime ha sulle elezioni, sui seggi, sugli spogli, sulle commissioni, la cosa più probabile è che nemmeno la cifra minore della forchetta, ossia il quaranta per cento, sia stata raggiunta: l’affluenza sarà stata di gran lunga al di sotto, forse imbarazzante. Ma prendiamo per buono il gioco all’asta dei media e financo il raggiungimento di quel 50% che persino a Kabul si vergognano di sostenere. Ebbene, anche questa sarebbe una sconfitta del regime se teniamo conto di quanto, solo pochi giorni prima, il generale Jean affermava sul Messaggero, stabilendo che al di sotto del cinquanta per cento si sarebbe registrato un fallimento politico del regime. Fallimento che era nell’aria, tant’è che per mettere le mani avanti la propaganda ha insistito particolarmente alla vigilia sulle minacce talebane contro i votanti fingendo di credere che costoro siano, laggiù, degli individui-consumatori che vanno motivati o demotivati e non piuttosto degli uomini e delle donne organici a clan, tribu ed etnie che votano, o non votano, in blocco a seconda degli accordi tra i capi. Letta in quest’ottica, che è l’unica vera, dobbiamo convenire che il 20 agosto si è registrato un fallimento mastodontico se si considera che nel 2004 i votanti furono il 74%.

Non è un problema di numeri o di democrazia. Laggiù come ovunque essa è la maschera dell’arbitrio dei potenti, laggiù come ovunque essa non esiste, quantomeno non come ci viene presentata; laggiù come ovunque la libertà e la partecipazione nascono dall’alleanza tra il Cesare e il popolo. Non è, ripeto, un problema di numeri o di democrazia: laggiù come ovunque, tra brogli e media, una potente minoranza antipopolare può governare indefinitamente simulando un consenso che non ha. Il fatto è che lo scarso numero di votanti attesta qualcosa di molto più significativo, e cioè che le alleanze tra capi clan, capi tribu, capi etnie sono in crisi, che cinque anni di occupazione militare straniera non hanno fatto progredire ma regredire le possibilità di dialogo tra le componenti autoctone.

Questo significa ancora qualcos’altro: che la strategia ufficiale di Obama che sarebbe quella di preparare una riduzione dell’impegno internazionale favorendo una maggior partecipazione afghana all’azione guidata dagli Usa sembra utopica.

Ovviamente la strategia ufficiale vale come tutto ciò che è ufficiale: è uno specchietto per le allodole. Nulla di quanto viene realizzato dagli americani risponde, mai, a quello che hanno precedentemente proclamato, né a quello che continueranno a raccontare poi. Ma anche sulla strategia reale oggi possibile c’è da porsi delle domande.

Lo scopo strategico che ha portato gli americani e il partito atlantico in afghanistan è palese. Esso consiste in:

  • impedire (dicasi impedire) che venga interrotta la produzione di papavero da oppio

  • mantere una zona di alto livello di destabilizzazione al fine di alzare i proventi del narcotraffico e controllare arterie energetiche

  • mantenere la presenza militare nei pressi della cerniera geostrategica del mondo da cui gli Usa vorrebbero estromettere Russia e Cina.

Questa triplice partita strategica contiene poi, come in una matrioska, vari conflitti intestini per il controllo regionale e per la conquista delle rotte strategiche. La partita vede anche in contrasto tra loro diversi alleati degli americani (Inghilterra, Francia, Israele); la partita vede anche in conflitto accanito due poli islamici: l’Iran che sostiene apertamente Karzai e l’Arabia Saudita che tifa per i talebani; la partita vede anche più di una potenza mondiale o regionale fare lì il doppio gioco o almeno giocare su più piani (Russia, Cina, Pakistan, Israele).

Insomma l’Afghanistan è un immenso groviglio e il test elettorale del 20 agosto, esattamente all’opposto dei tronfalismi giornalistici, ha dato un solo verdetto: è sempre più aggrovigliato.

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