venerdì 19 Luglio 2024

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Autodifesa e imprenditoria: la via somala del riscatto sul mare

Come tendono a descriversi i pirati somali? “Siamo pescatori semplici, che guadagnano denaro lavorando duramente”, racconta alla Dpa Ahmed Abdallah Mussa, catturato insieme ad altri 21 ‘colleghi’ da militari russi e indiani e ora rinchiuso in un carcere di Aden, nello Yemen. Un’immagine che contrasta con la grande quantità di armi rinvenute a bordo del barchino con cui Mussa assaltò nelle settimane scorse un peschereccio yemenita.
“Quelle armi ci servono per difenderci”, si giustifica un altro pirata, il 19enne Ahmed Kilawi, che sembra sapere molto di kalashnikov e lanciagranate e poco di reti da pesca. E non riesce a far passare l’immagine di un novello Robin Hood. Certo è che in un Paese in preda all’anarchia e al caos, privo di istituzioni che contino su una legittimazione popolare, la pirateria è finita per diventare un mezzo di sostentamento e i suoi proventi la base per l’avvio di attività. Come nel caso di un pirata che ha la sua casa nella regione del Puntland e che, grazie ai soldi dei riscatti ottenuti in cambio del rilascio delle navi, ha comprato alcuni minibus che noleggia. A raccontare la sua storia come quella degli altri, che va periodicamente a trovare in carcere, è il vice console somalo ad Aden, Hussein Hayi Mahmud, che invoca “una maggiore pressione contro i pirati, in modo da poter riprendere al più presto il controllo della situazione”. E poi, “nel lungo periodo, servirà uno Stato forte in Somalia, altrimenti non si riuscirà a mettere fine a questa piaga”.

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