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Gioventù che non prende fuoco

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Ardere è impossibile

Chi vuole, con onestà, analisi spregiudicata e apertura mentale, ripercorrere a ritroso nel tempo i comportamenti e lo spirito della gioventù, non può non riconoscere un attuale progressivo infiacchimento di stimoli e di entusiasmi in quella porzione antropologica.
È una questione psichica che interessa molti professionisti del settore e di cui ho parlato tra un pranzo e una cena con due eccezionali operatrici e personali collaboratrici. Desidero citarle per nome – Deborah Rossit e Michela Vascotto -, due psicologhe che nel basso conformismo diffuso anche in questo campo uniscono alla strepitosa bellezza anche una competenza clinica e una capacità di analisi ormai sempre più rare.
Negli studi arrivano giovani che non hanno desideri e adulti rassegnati in un futuro che non hanno costruito da giovani.
Il problema ruota sempre attorno alla questione di una personalità non conformata perché privata agli albori da quell’inquietudine, da quella rabbia e da quella passione che ha sempre caratterizzato il periodo dell’adolescenza e della prima età adulta.
Non ci interessa minimamente la politica politicante, quindi la nostra valutazione è di carattere personologico, caratteriologico, anche se certe caratteristiche si riflettono di conseguenza sulla modalità di affrontare gli affari politici.
Decenni di soddisfacimento anche anticipato delle voglie hanno disinnescato il seppur minimo potenziale di desiderio. Il sistema, nelle sue componenti di scuola e famiglia, ha artatamente creato illusioni di benessere e di sicurezza a tempo indeterminato, alla fine ottenendo una diffusa insicurezza ed una rassegnazione incapacitante di fronte alle minime difficoltà della vita.
La forbice del giovanilismo si è radicalizzata su due punte estreme. La prima, nella gratificazione immediata di qualsiasi bisogno più o meno indotto con l’azzeramento di quella forza di gravità – per usare la metafora della colomba di Kant – che ti permette di volare, che ti dà l’opportunità dello sforzo per salire: il razzolare ha la preminenza sul volteggiare; il becchime del sistema ha funzionato. La seconda, nell’adeguamento più sofisticato al sistema medesimo, nell’accettazione delle sue regole e dei suoi codici, al quale adeguarsi per poter usufruire dei benefici che lo stesso poi distribuirà secondo un suo indice personale di obbedienza del soggetto meritorio.
In ogni caso ci si trova davanti a persone con una disciplina perfettamente introiettata, con una castrazione educativa eteroindotta, con una immaginazione inibita, con un entusiasmo represso, con un decisionismo bloccato. E, fattore ancora più grave, anche le decisioni e trasgressioni sono fittizie perché all’interno delle concessioni offerte dal sistema secondo quella che Nietzsche interpretata come la morale degli schiavi.
C’è un egoismo diffuso nella gran parte dei soggetti che accedono ai nostri studi. Ma non l’egoismo aristocratico di chi con imperturbabilità e signorilità persegue i propri ideali e ad ogni costo impone il dovere delle proprie risoluzioni, bensì quell’egoismo plebeo di chi grufola nel proprio interesse materiale con fastidiosa lamentosità; di chi scivola con una certa agilità tra impegni e responsabilità da evitare; di chi è soddisfatto della buona parola e del buon giudizio altrui con quella patina melliflua della vanità non sospettando minimamente, come avvertì Nietzsche, che “C’è dello schiavo nel sangue del vanitoso, un residuo dell’astuzia dello schiavo”.
Vivono così, più o meno inconsciamente, insoddisfatti e delusi.

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