I cinesi nel post-Fidel
Una girandola di indiscrezioni, smentite e conferme, quella sta coinvolgendo in queste ore la Casa Bianca e la notizia della costruzione di una base spia cinese in quel di Cuba. La strana vicenda ha inizio l’8 giugno scorso, quando il Wall Street Journal titola “Cuba to host secret Chinese spy base focusing on US“: un pezzo che già da titolo farebbe tremare tutti i piani di Washington.
L’esclusiva del Wsj
Nell’esclusiva, a firma di Warren Strobel e Gordon Lubold, si racconta di un accordo – ovviamente segreto – tra Pechino e L’Avana per installare una base di spionaggio sull’isola, al fine di spiare tutte le comunicazioni elettroniche nel sud-est degli Stati Uniti nonchè il traffico navale. Proprio in quell’area del Paese, infatti, hanno sede l’Us Central Command di Tampa o Fort Liberty, l’ex Fort Bragg nonché più grande base militare del Paese. In cambio dell’importante concessione, Pechino si sarebbe impegnata a versare nelle case dell’Isola ingenti quantità di dollari, come risarcimento per la piccola nazione alle prese con una gravissima crisi economica. La Cnn aveva ripreso immediatamente la notizia, citando alcune fonti dell’intelligence Usa pronte a giurare che Washington sarebbe a conoscenza del piano da alcune settimane, procedendo alla cieca: non sarebbe chiaro, infatti, se la base fosse da intendersi già costruita o in fase di costruzione. Una notizia sconvolgente, che tuttavia ricade nell’alveo della battaglia per la supremazia esistenziale tra Cina e Stati Uniti, utilizzando uno dei più grandi spauracchi della Guerra Fredda: la prossimità territoriale di Cuba al territorio metropolitano degli Stati Uniti d’America.
Nel frattempo giungevano le smentite da Cuba, a firma del viceministro per gli Affari Esteri Carlos Fernandez de Cossìo, bollando la notizia come una calunnia, di quelle spesso “inventate da funzionari statunitensi”. Non le aveva mandate a dire nemmeno Pechino, che aveva subito parlato di “rumors e calunnie” da parte di Washington, definiti una “tattica comune” americana. La notizia, inoltre, era stata l’occasione per rinfacciare agli Stati Uniti il possesso a oltranza della Guantanamo Bay da oltre sessant’anni, e per invitare l’amministrazione Biden a rimuovere il blocco finanziario e commerciale verso l’isola.
La smentita del Pentagono
All’indomani della diffusione della notizia, che già di per sè genera due interrogativi, il Pentagono era corso a mettere a tacere ogni rumor, smentendoli. Dapprima era stato il portavoce per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, a definire il rapporto del quotidiano newyorkese come “non corretto” ai microfoni della Msnbc, pur confermando i timori dell’amministrazione per le attività di spionaggio cinese fin dal primo giorno del mandato di Biden.
Quanto basta per spegnere l’incendio divampato, regolare i conti con l’alzata di testa del Wsj, procurare una lavata di testa alle “fonti” e raffreddare gli animi con Pechino. Questo nonostante il quotidiano ribadisse che le fonti avessero confermato che la base servirebbe anche per spiare migliaia di mail, conversazioni e trasmissioni satellitari, sebbene l’accordo con la Cina sarebbe poco più che una bozza. La smentita, dunque, sia che mettesse a tacere una verità o che servisse a bloccare sul nascere una notizia fasulla, era apparsa come uno strumento atto a rincorrere quel disgelo che in molti avevano visto dopo il G7 di Hiroshima e del quale lo stesso Biden aveva dato conferma. A questa notizia infatti, erano seguiti i viaggi del direttore della Cia William Burns a Pechino (in missione segreta) e di Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, a Vienna, ove aveva incontrato alti funzionari cinesi. Senza dimenticare poi, l’atteso viaggio di Antony Blinken in Cina, per ripristinare le linee di comunicazione diretta tra i piani alti delle due potenze: un viaggio che era stato posticipato a data da destinarsi a causa dell’affaire sui palloni spia.
La contro-smentita di Washington: la base a Cuba c’è
L’ennesimo colpo di scena giunge però nella tarda mattinata (ora italiana) di domenica 11 giugno. L’amministrazione Biden fornisce conferma non solo dell’accordo, bensì dell’esistenza della base cinese a Cuba. La prova che la partita internazionale di Pechino inizia a giocarsi ad Ovest e non tanto ad Est, come saremmo portati a pensare: sebbene l’unica base militare cinese all’estero (ufficiale) è a Gibuti, Pechino lavori da anni per rafforzare la sua presenza nel mondo. Un processo in marcia inesorabile per sostituire gli Stati Uniti come potenza regionale: non a caso il Paese possiede una stazione spaziale gestita da militari in Patagonia (Argentina) dal 2018. L’impianto cubano, invece, risalirebbe al 2019 e farebbe parte di una mappa di stazioni simili che Pechino ha dislocato nel mondo. La conferma arriverebbe da un funzionario che, a condizione dell’anonimato, ha riferito che la notizia è legata a documenti di intelligence appena declassificati e che Washington avrebbe “ereditato” dall’amministrazione Trump, che aveva fatto dell’”America first” il suo motto. Così, all’alba del 2021, appena insediatosi alla Casa Bianca, Biden e la sua Camelot avevano dovuto intensificare gli sforzi diplomatici per interrompere i progressi cinesi sull’isola. La domanda più grande, dunque, è questa: gli Stati Uniti possono bloccare la realizzazione della struttura? Quali gli strumenti a disposizione di Washington?
Un vero garbuglio per l’amministrazione Biden che, desiderosa di un clima più disteso che non possa turbare la campagna elettorale, è costretta a fare i conti con i fantasmi dei mesi precedenti. Primo fra tutti il disgelo con Pechino, che queste dichiarazioni rendono più complesso: e dunque perché, allora, smentire la smentita proprio a pochi giorni da un ulteriore passo di riavvicinamento? La vicenda, della quale sentiremo parlare ancora molto, restituisce almeno due verità: la prima, a proposito di un cortocircuito che riguarda i piani alti di Washington e i rapporti tra Difesa e Casa Bianca; la seconda: sul tira e molla con Pechino, che inizia ad assumere un copione visto e rivisto.