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I Maometto bond

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Nell’inciucio globale la City si avvia a rappresentare la finanza islamica e l’Italia elemosina un posticino

 

 

 

 

          ISLAMIC FINANCE DOLLAR

Sukùk, takàful, ma anche ribà: solo qualche anno fa erano parole arcane, gergo per pochi iniziati al di fuori del mondo islamico e dei suoi affari. Oggi, a scorrere le pagine economiche dei grandi quotidiani occidentali, si incontrano sempre più spesso. Perché sono termini basilari per orientarsi nel grande mare della finanza islamica. Nata a Dubai solo nel 1975, ora vicina a un giro d’affari di mille miliardi di dollari, la moderna industria del denaro coranicamente corretta è in rapida e inarrestabile crescita ovunque. In Malaysia e nel Golfo, le due regioni musulmane più attive finanziariamente, ma non solo.

Le performance in tempo di crisi superiori a quelle del nostro sistema spingono infatti molti istituti occidentali a buttarsi nel business, come già fece la pioniera Citibank nel 1996. I suoi aspetti etici attirano perfino chi musulmano non è, ad esempio nel mondo cattolico.

Numerosi governi di Paesi non musulmani si stanno muovendo, a partire dalla Gran Bretagna. Al recente e affollatissimo Sukùk Summit di Londra dedicato ai “bond islamici”, la responsabile del Tesoro britannico per il settore, Sarah McCarthy-Fry, ha ribadito l’intenzione di fare della City il “centro mondiale” della finanza islamica.

GREGORIO GITTI

Questo mercato offre enormi opportunità a lungo termine e noi vogliamo coglierle”, ha detto, aggiungendo che presto verranno modificate alcune normative per garantire un ulteriore sviluppo. Lo stesso stanno facendo (o hanno già fatto) Francia, Svizzera, Hong Kong e molti Paesi africani. L’Italia prima o poi ne seguirà l’esempio.

La finanza islamica conta ancora solo per l’1% del mercato globale, ma sta sviluppandosi massicciamente: in ognuno degli ultimi quattro anni ha registrato una crescita tra il 15 e il 20% e i risultati dei primi mesi 2009 indicano che la performance dei vari istituti, oltre 300 in 75 Paesi, sono in media superiori a quelli della finanza classica. E se qualcuno ha invece registrato problemi seri o perfino gravi, questo è dovuto all’impatto del calo generale di liquidità e dell’immobiliare, non al core-business”, diceNasser Saidi, ex ministro dell’Economia e vicegovernatore della banca centrale del Libano, oggi chief economist del Dubai International Financial Centre, l’importante zona franca finanziaria dell’emirato e centro principale per i sukùk.

Le obbligazioni islamiche, sempre destinate a finanziare progetti reali, sono il segmento in maggior crescita – continua Saidi -. Nonostante il rallentamento generale prevedo che nel 2009 le nuove emissioni toccheranno i 27 miliardi di dollari, in gran parte lanciate da governi della regione. Anche vari Stati in Occidente sono intenzionati a seguirne l’esempio. Consiglio alla Repubblica italiana di considerare un’emissione di sukùk in euro o dirham per finanziare infrastrutture: sarebbe certo ben accolta nel Golfo”.

DUBAI BANK – MOHAMMED AMIRI E FAIZAL ELEDATH

Se altri economisti ritengono troppo ottimistiche le previsioni di Saidi sul 2009, dato il forte rallentamento del mercato manifestatosi dal 2008, la ripresa per tutti è però già iniziata. “Nel secondo trimestre le emissioni di sukùk sono scese del 35% su base annua ma dai tre mesi precedenti sono aumentate del 164% -, nota Aafaq Khan, capo della finanza islamica alla Standard Chartered -. Nel secondo semestre andrà ancora meglio”.

Sono vari i motivi del recente boom del settore. “Soprattutto il crescere della popolazione musulmana in Usa e in Europa, che dopo l’11 settembre si è molto spostata sulle “sue” banche così come ha fatto quella dei Paesi islamici. E poi il disastro partito dai subprime”, spiega Malik Sarwar, amministratore delegato della società di consulenza Sarwar Wealth Advisors di New York.

ENRICO VITALI

Che aggiunge: “L’Occidente dovrebbe imparare i tre principi base che ci hanno salvato dalla débacle. Il primo è il concetto “kiss”, keep it simple stupid, ovvero transazioni semplici e chiare: il caso Madoff mostra che molti affidano il denaro a gestori senza sapere in quali prodotti intricati e oscuri finisca.

Il secondo è la fiducia: in Occidente le banche stanno licenziando e invece il servizio ai clienti è il punto cruciale, ancor più in tempi difficili. Il terzo è la responsabilità sociale degli investimenti: ovvero il divieto ad esempio di creare denaro dal denaro, senza beni tangibili sottostanti, e quindi l’esclusione di strumenti speculativi come i derivati, ma anche gli hedge fund, tutti ad alto rischio”.

BANCA ISLAMICA

Dai critici, esterni o interni al sistema, si segnalano carenze e vari ostacoli da superare. Riguardo alla gamma di prodotti (da ampliare), alle spese per i clienti finali (da ridurre), alle differenze effettive con la finanza occidentale (da accentuare al di là dei termini). Ma soprattutto riguardo agli standard. Se la Malaysia ne ha adottati di nazionali insieme a un sistema di rating, altrove basta la fatwa di almeno tre esperti per rendere lecito un prodotto finanziario.

Finora gli istituti si sono regolati individualmente, senza molta attenzione al rischio sistemico o agli aspetti macroeconomici – ammette Ahmad Mohammad Ali, presidente della Islamic Development Bank, il colosso multinazionale con sede a Gedda -. Ma ci serve la visione d’insieme, sapere chi è collegato a cosa”. Sulla questione sono in corso difficili negoziati tra gli addetti al lavoro dei vari Paesi, divisi da interpretazioni più o meno rigide dell’Islam.

MADOFF

Ma una volta superato l’ostacolo (“anche gli eurobond all’inizio non avevano veri standard”, dice Saidi), si prevede che il settore conoscerà un ulteriore sviluppo. Forse non sarà vero che “la finanza islamica salverà l’economia globale”, come qualche economista occidentale ha (provocatoriamente?) predetto. Ma è certo che il mercato del denaro in nome del Corano è uscito dalla nicchia degli specialisti e non vi tornerà.

NEI PAESI ARABI UNA LIQUIDITA’ ENORME L’ITALIA POTREBBE SFRUTTARLA EMETTENDO SUKUK…
Coordinatore del Comitato strategico per lo sviluppo e la tutela all’estero degli interessi nazionali in economia (creato nel 2008 da Tremonti e Frattini, soprattutto per dialogare con i fondi sovrani), partner di uno dei primi studi legali italiani, advisor internazionale, Enrico Vitali ha un particolare interesse per la finanza islamica. Un settore a cui la Fondazione Formiche (dove Vitali siede nel comitato esecutivo) e la Fondazione Etica di Gregorio Gitti hanno dedicato recentemente a Roma un seminario a porte chiuse.

SCEICCO A DUBAI

L’incontro è stato occasione per fare il punto sullo sviluppo globale del nuovo mercato. E sulla situazione in Italia. “Che nonostante la nostra posizione di crocevia nel Mediterraneo è molto indietro rispetto a Paesi come la Gran Bretagna, la Svizzera o la Francia -, dice Vitali, precisando di parlare a titolo personale -. Adesso per noi è strategico recuperare terreno. E lo dico in un’ottica utilitaristica, non certo perché pensi che dobbiamo seguire i princìpi della sharia”.

Nel 2007 l’Abi e l’Unione Banche Arabe fir marono un memorandum con l’obiettivo di aprire la prima banca islamica in Italia entro il 2008. La stessa Abi e Bankitalia hanno avviato studi, qualche esperimento c’è stato, ma in sostanza non si è fatto niente. Per motivi solo tecnici o anche politici?
“Far dialogare i due sistemi non è semplice, i rating e i ratio sono ancora carenti nella finanza islamica. Ci sono problemi tecnici, di liquidità interbancaria ad esempio, mentre nel micro, a livello di prodotti di investimento, è più semplice. In Italia non credo ci siano pregiudizi anti-islamici: anzi, dialogare con il mondo musulmano in campo economico è più semplice. Ma manca ancora un incontro tra il nostro ordinamento e questi strumenti finanziari. Che andrebbe soprattutto a nostro vantaggio”.

Perché la comunità musulmana è ormai numerosa?
“Sì, la popolazione immigrata in Italia dai Paesi musulmani è cresciuta notevolmente ed è attiva negli affari. Ma un altro motivo è che la liquidità di molti Paesi arabi oggi è enorme. Vero è che i fondi sovrani arabi investono già da noi, adattandosi alla nostra finanza. Ma con la corsa in atto tra governi occidentali per attirarli è chiaro che offrire prodotti islamici agevolerebbe le cose. Senza dimenticare l’aspetto sicurezza”.

In che senso?
“Gli attuali sistemi di raccolta del risparmio sono spesso usati per finanziare il terrorismo. Una banca islamica in Italia sarebbe più trasparente. Certo, se si vuole accentuare la sicurezza si perde competitività, ma si può trovare un equilibrio. Con una sola azione si otterrebbero più risultati”.

Cosa dovrebbe fare l’Italia?
“Creare al più presto un comitato ad alto livello, con rappresentanti del Tesoro, degli Esteri, degli Interni, dell’Abi e di Bankitalia, accanto ad esponenti della comunità musulmana e a esperti esterni, per formulare raccomandazioni e progetti.

In Gran Bretagna esiste già. E poi, come è stato proposto al seminario di Roma, il governo potrebbe lanciare un’emissione di sukùk, i bond islamici. Per un Paese con un alto indebitamento e necessità di finanziare infrastrutture come il nostro un’emissione di sukùk sarebbe perfetta. Finora solo un Land tedesco l’ha fatto. L’Italia dovrebbe pensarci seriamente”.

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