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I muscoli del debole

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La Russia, come trentacinque anni fa, gesticola perché a rischio di tenuta interna?

Ad un osservatore attento non sarà sfuggito l’aumento del numero delle esercitazioni militari e delle missioni dimostrative che la Russia sta effettuando nelle ultime settimane. Un aumento costante, se confrontato nel breve termine, che diventa quasi esponenziale nel medio/lungo.
Se prima assistevamo, ad esempio, a missioni di pattugliamento da parte dei bombardieri strategici russi a cadenza bisettimanale e ancora prima mensile, ora quasi ogni quattro o cinque giorni i Tu-160 o Tu-95 volano nei cieli sopra i mari artici, con puntate sempre più frequenti ed effettuate in profondità nelle Adiz (Air Defense Identification Zone) dei Paesi occidentali.

Manovre nei cieli…
Nella sola giornata di lunedì 29 marzo, ad esempio, una coppia di “Blackjack” ed una di “Bear F” – la versione da pattugliamento marittimo del noto bombardiere strategico turboelica russo – sono decollate per una lunga missione sui mari di Norvegia e di Barents spingendosi quasi sino all’estremità settentrionale del Mare del Nord. Missioni simili, dirette verso le medesime destinazioni, si sono svolte anche nelle scorse settimane, in risposta al dispiegamento tattico di un distaccamento di bombardieri statunitensi B-1B in Norvegia, il primo nella storia, effettuato in ossequio alla volontà di Washington di contrastare il tentativo russo di “nazionalizzare” gli accessi all’Artico e alla “Rotta Nord”. Si tratta di una via marittima apertasi grazie ai cambiamenti climatici e strategicamente importante in un mondo dove, improvvisamente, ci si è accorti della fragilità dei “colli di bottiglia” marittimi (in inglese choke points) come il Canale di Suez, che possono essere facilmente bloccati mettendo in crisi l’economia globale.
Il giorno successivo, cambiando fronte e passando a quello estremo orientale, una coppia di Il-38, altro velivolo da pattugliamento marittimo antisom, hanno costeggiato lo spazio aereo nipponico sul Mar del Giappone, provocando l’ennesimo decollo su allarme dei caccia (scramble) della Jsdaf (la Japan Self Defens Air Force). Tokyo, ormai da almeno tre anni, è abituata a questi scramble per intercettare velivoli russi e cinesi, che almeno in un paio di occasioni a noi note, hanno operato in missioni congiunte.

Nei mari…
Cambiando dominio e passando a quello marittimo, dopo l’emersione nel pack artico di tre sottomarini (due classe Delta IV ed un Borei) a propulsione nucleare della Vmf russa (Voenno Morskoj-flot, la Flotta Russa), che, per loro, rappresenta una prima assoluta sebbene effettuata con quasi trent’anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti (vedere l’esercitazione Icex del 1986), ancora il 29 marzo due sottomarini classe Kilo migliorata (project 6363) si sono esercitati in quello che è un altro fronte bollente nonostante le temperature ambientali, quello del Baltico: il Petropavlovsk-Kamchatsky ed il Volkhov oltre alle normali attività di addestramento dell’equipaggio, hanno tenuto “esercitazioni di combattimento” simulando l’uso di siluri, mine e razzi.

E a terra
Negli stessi giorni – passando al dominio terrestre – in Buriazia, una repubblica della Federazione Russa che circonda il lago Bajkal, è avvenuta un’imponente manovra militare che ha visto la presenza di quasi tutti i sistemi da difesa aerea basati a terra presenti negli arsenali russi: S-400, S-300V4, Buk-M2, Tor, Pantsir-S1, Osa e Strela-10. Forse anche qualche manpad.
Sistemi entrati in azione nel quadro di una esercitazione complessa che ha coinvolto anche unità di fanteria meccanizzata, carri armati e artiglieria, in collaborazione con reparti del genio, veicoli aerei senza equipaggio, unità per la guerra elettronica e Nbcr.
Potremmo anche citare l’esercitazione antiaerea a fuoco dell’incrociatore Varyag, della classe Slava, appartenente alla Flotta del Pacifico, effettuata sempre nel Mar del Giappone nello stesso arco temporale.

Tre giorni “di fuoco”
Tutto questo è avvenuto negli ultimi tre giorni di marzo. Se guardiamo poco più indietro, l’elenco si allungherebbe, e di molto: ci basta ricordare l’uscita in mare, contemporanea e su allarme, dei sottomarini della Flotta del Mar Nero in concomitanza con l’esercitazione Nato “Sea Shield” ed il conseguente ingresso in quel mare di un incrociatore e un cacciatorpediniere statunitensi insieme ad altre unità navali dell’Alleanza Atlantica, senza considerare il dispiegamento, ormai pressoché permanente, di più di una decina di navi militari di vario tipo nel Mediterraneo Orientale, che si appoggiano al presidio aeronavale russo di Tartus/Hmeimim, in Siria.
Quasi tutte questa attività sono state ampiamente propagandante da Mosca, in particolare i pattugliamenti aerei e le esercitazioni navali. Anche l’uscita in mare, “su allarme” dei Kilo della Flotta del Mar Nero è stato uno show confezionato ad arte per i media del mondo: le esercitazioni principali, Nato o russe che siano, sono ampiamente previste e concordate tra le parti nel quadro degli accordi di stabilità in Europa.
I voli “artici” dei bombardieri rappresentano invece la risposta di Mosca alla nuova politica di Washington, che ha intrapreso la via dell’inasprimento del contrasto alla Russia. Abbiamo usato “inasprimento”, a sottolineare che gli Stati Uniti, anche durante l’era Trump, non hanno mai cessato di mettere pressione militare sull’avversario russo, sebbene i media e una certa fetta dell’opinione pubblica poco o male informata vogliano l’ex presidente Usa andato a braccetto col presidente Putin: un mito da sfatare una volta per tutte.

Come leggere queste dimostrazioni di forza?
Come si deve leggere quella che sembra – e forse è – un’escalation delle dimostrazioni di forza militare? Sicuramente c’è una motivazione contingente, ed è quella già accennata poco sopra: la nuova amministrazione Usa sta affrontando il dossier russo in modo molto esplicito e diretto, usando anche una retorica diplomatica diversa, di contrasto, che tocca tematiche molto delicate riguardanti la politica interna russa come il caso Navalny e la questione dei diritti umani.
La pressione militare, dopo le linee guida della Casa Bianca, è aumentata parimenti: basterebbe guardare ai cieli per capire come quelli “di confine” con la Russia siano più trafficati del solito da assetti da ricognizione e spionaggio, oltre che solcati, ormai regolarmente, da missioni di addestramento di bombardieri strategici non solo basati in Norvegia: la scorsa settimana ai B-1B distaccati a Orland sono stati affiancati da tre B-2 Spirit provenienti dalla base Whiteman dopo uno scalo tecnico effettuato alle isole Azzorre.
Delle prove muscolari degli Stati Uniti, prima che della Nato, che hanno imposto a Mosca la necessità di dare una risposta.
Le quasi costanti esercitazioni militari russe potrebbero però nascondere un’altra verità, rispetto alla mera risposta alle “provocazioni della Nato”.
Quest’ultimo periodo storico non è dei più felici per la Russia, che è alle prese con quelli che, sul fronte interno, sono più che “fastidi”. Dal punto di vista politico, e proprio su Navalny, Mosca sta affrontando un crescendo del dissenso che poteva e doveva essere evitato: abilmente orchestrato da oltre Atlantico, Navalny, che prima dell’intervento di Washington era praticamente sconosciuto al di fuori di Mosca, è diventato “il dissidente” avversario del presidente Putin.
Nella gestione del suo caso il Cremlino ha dimostrato poca lungimiranza: se Navalny fosse stato meno “nel mirino”, il caso si sarebbe sgonfiato da sé, ed ora il suo nome sarebbe rimasto nel dimenticatoio invece di essere sulla bocca dei manifestanti da S.Pietroburgo a Vladivostok.
Mosca è quindi caduta nella trappola abilmente tesa da Washington, che ha sapientemente fatto diventare un “signor nessuno” il principale avversario politico di Putin, anche se, dati alla mano, così non è. Questo, secondo chi scrive, è solo il primo segnale di debolezza.
Se andiamo a guardare alla gestione della sfera di influenza russa ereditata dal crollo dell’Unione Sovietica, anche qui la politica di Putin non sarà ricordata come quella di Pietro il Grande: abbiamo già avuto modo di dire che Mosca non ha riconquistato la Crimea, ma ha perso l’Ucraina e ha rischiato (sta rischiando) di perdere clamorosamente anche la Bielorussia, due regioni che, storicamente, rappresentano la porta di ingresso della Russia.
Si potrebbe citare anche la Georgia, la Moldavia, e il difficoltoso controllo delle frontiere orientali, dove la Cina è sempre più aggressiva e preme sulla Russia non solo a livello economico/commerciale: sempre più cinesi si stanno insediando in quelle zone e in futuro potrebbero rappresentare un pericolo per l’unità della Federazione. Un fatto che contribuisce ad un certo malcontento interno, sempre più malcelato.

Il “Decreto di maggio” sembra non partire
Anche dal punto di vista economico la Russia sembra una tigre di carta: troppo dipendente dalla volatilità del mercato degli idrocarburi. La presidenza ha cercato di porre una toppa nel 2019 col “Decreto di maggio”: un provvedimento di rilancio dell’economia che prevedeva di stanziare 391 miliardi di dollari (pari a 25.700 miliardi di rubli). In particolare 8mila miliardi di rubli dovrebbero essere stanziati, entro il 2024, per costruire infrastrutture e occuparsi dei diversi problemi sociali.
Le infrastrutture non collegate al settore energetico assorbono la maggior parte dei fondi con circa 6400 miliardi di rubli, seguite dalla rete stradale con 4800 miliardi, l’ecologia con 4mila e la demografia con 3100. Secondo il piano del Cremlino 13100 miliardi di rubli attingono dal budget federale, 4900 da quello regionale e 7500 da “fonti extra budget”.
Sulla carta si trattava di una vera e propria rivoluzione economica, che superava, per fondi in rapporto ai tempi, anche i “piani quinquennali” della vecchia Unione Sovietica. Un programma ambizioso che però, già allora, era giunto tardivamente considerata la situazione sociale russa, alle prese con tensioni mai viste nell’era Putin. Il presidente, prima di allora, aveva già avviato un processo di rilancio dell’industria e dell’economia fatto di nuove costruzioni navali, infrastrutture e ammortizzatori sociali che è stato fortemente penalizzato dalle sanzioni internazionali, ma ha almeno ha dato una svolta, se non altro dal punto di vista organizzativo, all’economia russa.
Quanto fatto dal 2014 al 2018 però non è bastato ad aggirare le sanzioni, e alcune scelte, come l’innalzamento dell’età pensionabile, sono state obbligate per cercare di porre un freno al dissanguamento finanziario che una simile manovra ha portato, accompagnata, come noto, da una pesante svalutazione del rublo.
Pertanto le tensioni sociali, le cui prime avvisaglie erano state forse sottovalutate, sono comunque scoppiate e il caso Navalny è stato usato (dagli Usa) per canalizzarle. Questo è successo anche perché gli effetti del “Decreto di maggio” tardano a vedersi, come ampiamente previsto, nonostante i grossi investimenti che sono finiti nell’Artico russo, che sta vedendo un rilancio come non lo si vedeva dai tempi dell’Unione Sovietica proprio per i motivi strategici descritti all’inizio della nostra trattazione.
L’attenzione del Cremlino, però, dovrebbe essere rivolta da un lato molto più vicino, affrontando una volta per tutte i problemi legati al complesso industriale e, conseguentemente, alla svalutazione della moneta, e dall’altro più lontano, guardando a oriente, dove, detto senza mezzi termini, la Russia si sta – forzatamente vista la situazione internazionale – “mettendo il nemico in casa”.

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