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I nostri esuli

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spiati a Trieste dagli jugoslavi

Reso pubblico in Croazia un dossier degli anni Ottanta. Un agente dell’Udba infiltrato nella Capitaneria di porto di Trieste.
La minoranza italiana in Istria, a Fiume e in Dalmazia rappresentava storicamente un “rischio” per la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia perché continuavano a essere considerati una sorta di quinta colonna dell’irredentismo fascista italiano. Interpellato in merito, il direttore del Centro di ricerche storiche di Rovigno, Giovanni Radossi non ha dubbi: «Purtroppo – è quanto dichiarato alla Voce del Popolo – non c’è stata nel Paese la necessaria “lustrazione” (non sono stati fatti i conti con il passato chiarendo le responsabilità del regime, ndr).
Coloro che ci spiavano in passato, possono farlo anche oggi». Della stessa opinione anche il presidente della Giunta esecutiva dell’Unione italiana, Maurizio Tremul: «Niente stupore per quanto avveniva, lo sapevamo da tanto tempo. Fra qualche anno verremo a sapere che anche dopo il 1991 qualcuno dei connazionali è stato oggetto di spionaggio e forse lo è anche attualmente» Avrebbe stupito il contrario. Tra i sorvegliati speciali dei servizi segreti jugoslavi, e parliamo del periodo antecedente la frantumazione della Federativa di Tito, c’erano anche gli italiani che vivevano (e vivono) in Croazia e Slovenia, le loro istituzioni e poi l’Università popolare di Trieste e il Consolato italiano di Capodistria. È quanto emerso giorni fa e ripreso dai quotidiani, il polese Glas Istre e il fiumano La Voce del Popolo, rivelazioni che emergono dal documento venuto alla luce una ventina di anni fa e formulato da Josip Perkovi ex agente segreto jugoslavo, che la Germania vuole le sia estradato (la Croazia ha risposto picche) perché sospettato di avere liquidato dissidenti croati in territorio tedesco. A redigere il testo anche Jan Gabris dell’Intelligence di Zagabria. Entrambi lo avevano fatto per conto dell’allora presidente della Croazia, Franjo Tudjman, e dei suoi stretti collaboratori, descrivendo nei dettagli o quasi le attività degli 007 comunisti nel periodo dal 1980 al 1990, anno dell’avvento del sistema pluripartitico nelle ex repubbliche jugoslave. Il regime di Belgrado, che vigilava e sospettava di tutto e tutti, aveva naturalmente nel mirino anche gli italiani rimasti, quelli che non avevano abbandonato le loro terre istriane e fiumane, isole comprese, da sempre guardati con diffidenza perché “nazionalisti e irredentisti”. La storia avrebbe scritto invece pagine e verità diverse nel decennio delle guerre balcaniche, tragedie le cui conseguenze si fanno sentire tuttora. All’epoca i servizi jugoslavi rivolgevano particolari attenzioni a nomi noti della nostra Comunità nazionale, come ad esempio Antonio Borme, Antonio Pellizzer, Giovanni Radossi e Anita Forlani. I controlli riguardavano anche gli esuli, l’Università popolare triestina, il consolato italiano a Capodistria e anche alcuni presunti irredentisti, presenti nella Chiesa cattolica in Italia.
Belgrado temeva sinergie di qua e di là del confine, che avrebbero avuto un traguardo: la secessione dei territori ottenuti dopo il secondo conflitto mondiale e la loro annessione all’Italia. L’Udba, così nel dossier, marcava strettamente i servizi segreti italiani operativi a Udine, aveva un agente infiltrato nella Capitaneria di porto di Trieste, seguiva quanto avveniva all’Istituto di studi e documentazione sull’Europa, con sede a Trieste e si impegnava pure nel parare i colpi del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (Sismi). Prima della caduta della Jugoslavia l’attività degli 007 fu frenetica soprattutto nelle aree di confine, e, in azione non c’erano solo gli jugoslavi ma anche i britannici e gli americani, senza dimenticare i francesi soprattutto in Croazia.

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