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Il Libano è destabilizzato

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Ma l’Onu non ha il coraggio di sottolineare la maggior parte delle cause di ciò

Il Libano stretto nella morsa della crisi economica e dell’instabilità politica e la Siria ancora sotto scacco delle milizie e degli eserciti stranieri. La polveriera mediorientale rischia di deflagrare ancora, da un momento all’altro. Una situazione “triste e straziante”, quella del Paese dei Cedri. Così l’ha definita il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, in un’intervista rilasciata al quotidiano panarabo Asharq al Awsat durante la sua visita a Beirut.
Le divisioni in seno al governo libanese, assieme alla povertà e all’emergenza Covid, rischiano di riportare il Paese agli anni bui della guerra civile. Il Libano di fatto, è già “destabilizzato”, avverte Daniele Ruvinetti, senior advisor della fondazione Med Or di Leonardo. E il rischio è che, se la situazione dovesse esplodere, le schegge impazzite possano colpire i Paesi vicini, come Siria e Israele, facendo ripiombare la regione nell’instabilità.

Tra crisi politica, economica e sanitaria, c’è il rischio che il Libano piombi di nuovo nella spirale della violenza settaria?
“Per anni il Libano ha cercato di mantenersi in equilibrio – proprio come forma istituzionale – all’interno del settarismo che ne aveva caratterizzato profonde divisioni. Questo schema, alla luce anche dei fatti attuali, sembra però essere parte della crisi corrente. Difficile dire cosa succederà. Più chiaro, invece, un punto: l’esasperazione di tutti i cittadini libanesi, di qualsiasi estrazione e credo, nei confronti di una situazione che si è incancrenita dopo anni di malgoverno e mala gestione della cosa pubblica e del bene comune”.

Dopo il default finanziario della Banca centrale libanese nel marzo del 2020 l’esplosione nel porto di Beirut ha segnato l’inizio di una crisi senza precedenti. Qual è la situazione oggi?
“In questo momento il Libano è un Paese che non riesce ad andare avanti. Soffre dei mali che quella cattiva gestione – e le figure che l’hanno perpetrata nel proprio interesse – ha prodotto, ma anche il peso di dinamiche esterne. Non c’è fiducia nel futuro, i cittadini sono scoraggiati: la situazione è critica”.

Restano gli aiuti da parte della comunità internazionale, ma quali sono le condizioni per ottenerli?
“Gli aiuti della comunità internazionale, ad esempio quelli del Fondo Monetario, potrebbero essere una via per aiutare a rialzare il Paese, il cui debito pubblico, secondo le ultime stime, è pari al 341 per cento del Pil, ma è chiaro che poi il Libano dovrà riprendere a camminare da solo. Le condizioni per ottenerli sono ragionevoli e logiche: riforme strutturali, perché è impensabile che chi ha creato il problema continui a rappresentarsi come parte della soluzione”.

Proprio l’inchiesta sui fatti dell’estate 2020 divide ancora il governo e ha portato ad una situazione di stallo politico, che prospettive ci sono in vista delle elezioni fissate per il prossimo anno?
“I partiti politici libanesi sono chiamati ad una prova di affidabilità, innanzitutto davanti ai propri cittadini, e poi davanti alla Comunità internazionale. Come ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, durante la sua visita a Beirut di questi giorni, “i leader politici del Libano non hanno il diritto di essere divisi e di paralizzare il Paese”. Ecco, il punto è questo: accetteranno questo sforzo di unità?”.

La crisi economica e politica ha aggravato anche gli effetti della pandemia. Quali sono le conseguenze sulla popolazione?
“È evidente che con questa situazione il Libano non si sarebbe presentato attrezzato davanti al Covid. C’è un problema di diagnosi e prevenzione, perché le strutture sanitarie non sono adeguate e i fondi destinati all’emergenza sono spesso oggetto di speculazioni e malaffare. Poi c’è un problema di incapacità politica nel pianificare una strategia di risposta alla pandemia. Basta un dato per capirci: il governo del primo ministro Najib Mikati non si riunisce da più di due mesi, ovvero dal 12 ottobre scorso. Da notare, anche, che il nuovo governo è uscito da uno stallo politico di 13 mesi”.

Povertà e violenza spingono sempre più cristiani a lasciare il Paese, quali sono i rischi di questo nuovo esodo?
“I cristiani libanesi si apprestano a celebrare il Natale in una paese la cui instabilità si è moltiplicata nel giro di un anno, dove mancano medicinali e generi alimentari, lavoro, speranze ed energia elettrica. Ci sono forti segnali di resilienza tra la comunità cristiana, che non vuole abbandonare le proprie terre, ma ci sono anche altri che preferiscono costruire altrove il proprio futuro”.

La partita della ricostruzione del porto fa gola a molti attori esterni, chi è che ha più interesse ad espandere la propria influenza nel Paese?
“La ricostruzione del porto di Beirut è un tema tecnico e allo stesso tempo politico e geopolitico. È evidente che aziende internazionali importanti vogliano inserirsi nel business collegato ai lavori in uno scalo cruciale nel Mediterraneo. Altrettanto evidente che Paesi come quelli del Golfo, oppure l’Iran, la Russia, la Cina, ma anche nazioni europee come la Francia, vogliano essere parte del gioco perché, non solo simbolicamente, da lì potrebbe passare la ricostruzione di un Paese che è per anni stato un hub finanziario della regione mediorientale ed un importante centro politico e culturale”.

Che effetti potrebbe avere una possibile destabilizzazione del Paese sugli equilibri regionali ed in particolare sui vicini, Siria e Israele?
“Il Libano è già di fatto destabilizzato e buona parte dell’interesse internazionale, soprattutto quello di Ue e Usa, si lega all’evitare che schegge impazzite di questa destabilizzazione si disseminino nel Medio Oriente, una regione che sta faticosamente trovando una stabilità pragmatica. Pensiamo per esempio quello che questo può comportare riguardo a Hezbollah, un attore politico libanese che si proietta anche all’estero, e che è di fatto non ha mai chiuso la guerra aperta contro Israele nel 2006”.

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