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In molle carne vermes nascentur

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La devotio latina e la crisi dei valori


Alla luce dell’attuale crisi economica sarebbe giusto lavorare anche sullo spirito degli italiani, che appare rammollito da parecchi decenni. Una crisi che, seppure con le dovute responsabilità sul piano economico, è certamente anche fisiologica; non si può desiderare con ingordigia di arricchirsi sempre di più, ed anzi è una pretesa che sfocia nella malattia, secondo il mio punto di vista.

Ho conosciuto bene il popolo peruviano. Nelle Ande, dove mi trovavo, non c’era nemmeno l’illuminazione elettrica. Per le urgenze sanitarie, l’ospedale più vicino era a circa cinque ore di automobile. Le strade nelle Ande sono fatte dai peruviani, ché il governo non se ne cura. Ogni stagione delle piogge è un gran problema, le comunicazioni si bloccano per giorni e giorni.

Questa mattina vi scrivo dal sud est asiatico, nelle Filippine, dove giornalmente ho pieni gli occhi di miseria nera, quella vera: nelle Filippine ci sono approssimativamente un milione e mezzo di bambini, anche piccolissimi, che vivono – come pure molti adulti – abbandonati nelle strade; da solo, quest’ultimo dato può dare l’idea delle differenze tra un’Italia ricca ma colpita dalla recessione e gran parte del resto del mondo.

Ho sempre stimato chi si suicida, ma gli imprenditori che si danno allo sport del tiro al cervello, lasciando famiglie allo sbaraglio, più che povere vittime del sistema, li considero conseguenza di quello che dicevo sopra: un rammollimento degli animi. Suvvia, gli italiani di cento anni fa sapevano sopportare la povertà e l’indigenza assai meglio di questi italioti arricchiti, che dall’“avvento” degli Alleati inseguono solo il valore del benessere. Chi vi parla, a scanso di equivoci, è uno che ha buttato il sangue in un’attività commerciale per quasi quattro anni, vessato dallo stato in ogni modo, tasse, burocrazie folli, richieste di denaro da parte della polizia municipale con il ricatto eccetera. A tutt’oggi devo ad Equitalia circa trentamila euro. Certo, c’è chi deve cedere la casa; certo, non avendo famiglia mi viene più difficile la comprensione, tuttavia non credo di provare molta compassione per chi si suicida a causa della crisi economica. Questo non contraddice affatto la mia stima per il suicida, la quale si fonda sulle mie letture di classici, di filosofi stoici, di eroi romani. Non mi sento un erudito, ma è con quelle letture che ho formato parte del mio pensiero.

Nell’antica Roma, come si sa, il suicidio non era affatto disdegnato – i Romani non erano un popolo cristiano. Seneca (e in generale gli stoici) è ritenuto per certi versi un precursore di tanti ideali cristiani. Su un tema però bisogna riscontrare una sensibile differenza tra il filosofo e la dottrina cristiana: il suicidio. Così si esprime in una lettera a Lucilio:

 «Quae, ut scis, non semper retinenda est; non enim vivere bonum est, sed bene vivere.

Itaque sapiens vivet quantum debet, non quantum potest. Videbit ubi victurus sit, cum quibus, quomodo, quid acturus. Cogitat semper qualia vita, non quanta sit. [sit] Si multa occurrunt molesta et tranquillitatem turbantia, emittit se; nec hoc tantum in necessitate ultima facit, sed cum primum illi coepit suspecta esse fortuna, diligenter circumspicit numquid illic desinendum sit».

 

Non è opportuno, lo sai, conservare la vita in ogni caso; essa infatti non è di per sé un bene; lo è, invece, vivere come si deve.

Pertanto il saggio vivrà quanto a lungo gli compete, non quanto più può; osserverà dove gli toccherà di vivere, con chi, in che modo e quale sarà la sua attività. Si preoccupa sempre della qualità, e non della quantità della vita: se gli capitano molte cose spiacevoli, e tali da turbare la tranquillità del suo animo, egli si mette senz’altro in libertà. E non lo fa soltanto in casi di estrema necessità, ma appena la Fortuna comincia a diventare sospetta, considera attentamente sotto ogni punto di vista se non sia quello il momento di porre fine all’esistenza»].

 

Questo non significa che Seneca avrebbe giustificato un imprenditore fallito che si leva la vita; per gli stoici la felicità coincideva con la virtù, dunque per essere felice l’uomo deve innanzitutto essere virtuoso. È evidente che la forza d’animo è una delle virtù stoiche, ed attraverso questa l’imprenditore troverebbe la via della felicità, piuttosto che imboccare il tunnel della disperazione.

Sempre in una lettera a Lucilio, così si esprime Seneca:

 

«Nuper in ludo bestiariorum unus e Germanis, cum ad matutina spectacula pararetur, secessit ad exonerandum corpus – nullum aliud illi dabatur sine custode secretum; ibi lignum id quod ad emundanda obscena adhaerente spongia positum est totum in gulam farsit et interclusis faucibus spiritum elisit. […] O virum fortem, o dignum cui fati daretur electio! Quam fortiter ille gladio usus esset, quam animose in profundam se altitudinem maris aut abscisae rupis immisisset!».

 

Recentemente, nel corso di un addestramento di gladiatori per il combattimento di fiere, un germano, mentre si allenava per lo spettacolo del mattino, si allontanò per scaricare l’intestino – non gli era infatti consentito di ritirarsi senza sorveglianza in alcun altro luogo appartato – e si conficcò per intero nella gola quel legno che con una spugna attaccata è posto in quel luogo per la pulizia delle parti intime. Così, ostruitosi l’esofago, esalò l’ultimo respiro[…] Che uomo coraggioso! Come meritava che gli fosse data la possibilità di scegliere il proprio destino! Con quanta forza d’animo si sarebbe servito della spada, con quanta audacia si sarebbe gettato in un punto profondo del mare o nella scarpata di una rupe a picco!»].

 

Ed ancora scriveva:

 

«Is aeger animo et suo vitio miser est, cui miserias finire secum licet. Dicam et illi qui in regem incidit sagittis pectora amicorum petentem et illi cuius dominus liberorum uisceribus patres saturat: ‘quid gemis, demens? Quid expectas ut te aut hostis aliquis per exitium gentis tuae uindicet aut rex a longinquo potens aduolet? quocumque respexeris, ibi malorum finis est. Vides illum praecipitem locum? illac ad libertatem descenditur. Vides illud mare, illud flumen, illum puteum? libertas illic in imo sedet. Vides illam arborem breuem retorridam infelicem? pendet inde libertas. Vides iugulum tuum, guttur tuum, cor tuum? effugia seruitutis sunt. Nimis tibi operosos exitus monstro et multum animi ac roboris exigentes? Quaeris quod sit ad libertatem iter? quaelibet in corpore tuo vena».

 

Se l’animo è malato e miserabile, a causa della sua sofferenza, gli è possibile farla finita con se stesso e il suo dolore. Dirò, sia a colui che si è imbattuto in un re che prendeva di mira con le sue frecce i petti degli amici, sia a colui il cui padrone sazia i padri con i visceri dei suoi figli: ‘Di che gemi, pazzo? Perché aspetti che qualche nemico venga a liberarti, distruggendo il tuo popolo, o che un re potente accorra da terre lontane? Da qualunque parte guardi, c’è la fine dei tuoi mali. Vedi quel precipizio? Da quello, si scende alla libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? La libertà siede là, sul fondo. Vedi quell’albero basso, rinsecchito, malaugurato? La libertà è appesa a quello. Vedi il tuo collo, la tua gola, il tuo cuore? Sono vie di scampo alla servitù. Ti mostro forse uscite troppo laboriose e che richiedono molto coraggio e molta forza fisica? Chiedi qual è il sentiero della libertà? Qualunque vena del tuo corpo»].

 

In quest’ultimo pensiero, io ci leggo un invito a combattere, piuttosto che a lamentarsi. La via di uscita è ovunque, se la si cerca bene.

È tuttavia Seneca stesso in altri frangenti, come spesso gli accadeva e come spesso hanno sottolineato i suoi nemici, a contraddirsi. Ad esempio egli fu sul punto di suicidarsi in una circostanza, ma cambiò idea in nome del riguardo per i propri cari, che ne avrebbero sofferto:

 

«Più volte presi di slancio la decisione di spezzare la mia vita, ma ne fui distolto dal pensiero della vecchiezza del mio tenerissimo padre […]. Talvolta anche il vivere è un atto di coraggio».

 

Sappiamo poi come egli si aprì le vene immerso in una vasca d’acqua calda, la quale fu però una scelta quasi obbligata, un consiglio che sarcasticamente l’imperatore gli mandò assieme ai sicari. Imperatore il quale pure morì suicida, con l’aiuto della mano di uno schiavo. E tanti, tanti altri suicidi nell’antichità, ma più che da rovesci dalla fortuna, furono causati da ragioni d’onore, così come pure accadeva tra i nobili samurai del Giappone.

Insomma, il suicidio resta ovviamente una scelta personalissima e non giudicabile. Non giudico il suicidio di quegli sfortunati imprenditori. Ma certo rappresenta l’effetto di un indebolimento dello spirito del popolo, un popolo che come quello statunitense considera logica la frequentazione degli psicoanalisti, un popolo ormai sull’orlo della depressione ad ogni minima difficoltà, e poco propenso al combattimento in senso lato. Ciò che traspare anche dai media, poi, è che in questa cultura alla debolezza egli viene “educato”. Non è meglio la ribellione?

Altro esempio classico di suicidio tra i romani fu la devotio, il rito romano nel quale l’officiante ed offerente era al tempo stesso l’offerta agli dèi: un patto nel quale l’uomo, chiedendo una grazia, dava in cambio la propria vita come offerta; ovvero il console, responsabile del rapporto tra esercito e divinità, che si consacrava agli dèi (solitamente in situazioni di estremo pericolo per l’esercito) chiedendo in cambio la vittoria per Roma. Quindi, armato, si lanciava tra le schiere nemiche a cavallo, alla ricerca della morte che avrebbe suggellato il patto con le divinità, ristabilendo la pax deorum e placando la collera degli dèi. Un atto religioso, un rito, le cui più importanti ripercussioni erano di ordine psicologico ed emotivo sui soldati, come è facilmente immaginabile. Ed è anche quello che accadde tra i kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, quando l’ammiraglio Masafumi Arima si gettò d’impeto con il suo aereo contro una nave americana, seguito poi, nei giorni, da moltissimi altri giovani giapponesi che si immolarono per la patria. Arima console di Roma: ripeto, la devotio romana era un rito religioso più che un semplice atto d’eroismo. Ma gli effetti sono i medesimi: simili esempi di spirito di sacrificio, infatti, provocano una vera scarica di adrenalina, che amplificata dalla folla genera un impulso unanime in tutto l’esercito; questi gesti di estremo, sprezzante coraggio stimolano fortemente lo spirito d’emulazione ed amplificano il senso dell’onore.

Ma questi suicidi rituali causati dai criminali di Equitalia in una società ormai marcita sotto i colpi del consumismo e del capitalismo, marcita nell’assenza di valori veri ed ancestrali, questi poveri imprenditori che “non ce la fanno più”, rappresentano degli stimoli positivi per il popolo o andrebbero fermamente condannati? Io credo che il popolo italiano, proprio adesso, vada educato alla forza dello spirito, la quale non può certo essere coltivata nei momenti di fortuna e serenità. Tuttavia non vedo questo interesse da parte di nessuno, giacché anzi in Italia oggi non si fa che piangere e lamentarsi, senza per altro agire in nessuna direzione. Allora, nell’immobilità, sarebbe forse più onorevole la silenziosa sopportazione.

340 a.C.: il console romano Publio Decio Mure combattendo contro i Latini, indossata una toga praetexta e velatosi il capo chiedeva agli dèi la distruzione dell’esercito nemico in cambio dalla propria vita:

 

«Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici».

 

Espletate queste formalità religiose, il console si lanciò a cavallo tra le file nemiche. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra in modo eroico, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Questo gesto diede ai suoi una tale fiducia e un tale vigore che i Romani si gettarono con grande impeto nella battaglia, mentre i nemici, confusi, cominciarono ad arretrare sotto la foga dell’armata romana, rincuorata dal sacrificio del proprio comandante. La vittoria, alla fine, arrise ai Romani.

 

Ubi ordo, ibi pax et decor. Ubi pax et decor, ibi laetitia.

 

 

 

 

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