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Vengono tutti qui perché da noi è facile facile

Alla base di ogni partenza verso l’Europa ci sono due elementi: da un lato la volontà del migrante di arrivare nel vecchio Continente, dall’altro l’interesse dei trafficanti ad incentivare le partenze. Questi due elementi sono unificati da un comune denominatore: il passaparola. Questo spiega il perché non si sono mai interrotti del tutto i flussi migratori.

Ecco cosa incentiva le partenze
Le partenze dal continente africano verso l’Europa rappresentano un fenomeno consolidato, seppur con ondate diverse nel tempo. È ormai un dato di fatto: dall’Africa si parte e si continuerà a partire per raggiungere in modo più veloce il Vecchio Continente. L’Italia, in tal senso, rappresenta il luogo di primo approdo e di transito verso altre nazioni europee. E così la rotta del Mediterraneo centrale, solcata da milioni di persone nelle ultime due decadi, risulta tra le più gettonate dai migranti e tra le più sfruttate dai trafficanti. Ad alimentarla però non è soltanto la posizione geografica del nostro Paese. Al contrario, alla base di questo percorso migratorio vi è anche un preciso passaparola: “Se arriviamo in Italia, siamo al sicuro”. Non sono pochi i migranti intercettati dalle nostre forze dell’ordine negli anni passati che, una volta interrogati, hanno riferito di come questa frase venga spesso ripetuta tra di loro mentre si trovano in Africa.
D’altronde una delle originarie forme di comunicazione fra gli uomini è rappresentato proprio dal passaparola, elemento in grado di diventare quasi “legge” all’interno di un determinato contesto sociale. A livello migratorio, lo si è visto a maggio a Ceuta: qui è bastato diffondere la notizia dell’apertura delle frontiere per far riversare all’interno dell’enclave spagnola 8.000 migranti in 48 ore. Quando si parla di immigrazione e in special modo di quella verso l’Italia, il passaparola diventa un circolo senza via d’uscita. Si alimenta in molte regioni africane la voglia di andar via, accompagnata dalla convinzione che, una volta giunti in Italia, si può iniziare una nuova vita. Sotto quest’ultimo aspetto, un ruolo fondamentale viene giocato dai trafficanti. Sono loro a dare linfa a delle convinzioni che si rivelano poi errate. Si incentivano così le partenze e i flussi migratori non lasciano tregua.

“Tra i migranti c’è la convinzione che arrivare in Italia è più semplice”
Le varie rotte migratorie in qualche modo “comunicano” tra loro. Quando c’è un ostacolo da una parte, i flussi si spostano verso altre regioni. È una legge non scritta dell’immigrazione valevole in ogni contesto e in ogni situazione. Ciò che è accaduto a Ceuta a maggio potrebbe aver avuto in tal senso un importante impatto: tra i migranti si è diffusa oramai la convinzione che lungo quelle frontiere terrestri c’è l’esercito e non è possibile passare. Per l’Italia non è affatto una buona notizia. La chiusura di quel confine potrebbe spostare migliaia di migranti verso i punti di partenza delle rotte del Mediterraneo centrale. Ma in realtà per il nostro Paese il problema ha radici più profonde: “Da diversi mesi oramai – ha spiegato una fonte diplomatica su InsideOver – l’Italia viene vista come una meta più abbordabile”.
L’effetto Ceuta potrebbe vedersi lungo il corso dell’estate, mentre l’ondata di sbarchi di inizio 2021 ha un’origine più remota: “Dopo la prima ondata pandemica, che aveva quasi azzerato i flussi diretti nel sud Italia – ha proseguito la fonte – nell’estate 2020 sono stati registrati molti sbarchi dalla Tunisia. Questa impennata di arrivi potrebbe aver generato la convinzione che imbarcarsi e intraprendere la via del Mediterraneo centrale è molto più semplice”. Si è quindi generato un passaparola diffuso soprattutto tra i migranti in Libia. Ma non solo: i trafficanti, in vista dell’estate del 2021, starebbero alimentando l’idea secondo cui la rotta italiana è quella che presenta più vantaggi. Circostanza non vera ovviamente, come dimostrato anche dagli ultimi naufragi a largo della Libia. Il passaparola però sta andando avanti: “E questo – ha concluso la fonte – non solo tra chi è già in territorio libico ma anche tra chi nell’Africa subsahariana vorrebbe andare in Europa”.

Una situazione che crea allarme
I dati parlano chiaro: le organizzazioni criminali sono in fermento e stanno approfittando del passaparola per far salpare sempre più barconi. Non è soltanto un’impressione destata dagli ultimi sbarchi. Basta osservare i dati resi noti dal Viminale per capire quanto la situazione sia preoccupante. Sono ben 16.817 i migranti approdati lungo le nostre coste in questa prima parte dell’anno, quasi il triplo dello stesso periodo dello scorso anno, quando si contavano 5.472 arrivi. Le previsioni non sono delle più rosee: barchini e gommoni saranno protagonisti anche di questa stagione estiva. Una situazione che sta preoccupando e non poco lo stesso governo di Mario Draghi, con il presidente del consiglio che da quando è insediato a Palazzo Chigi ha scatenato un’offensiva diplomatica nei Paesi nordafricani volta ad arginare la situazione.

Come può intervenire l’Italia
La Spagna a Ceuta ha potuto schierare l’esercito. L’Italia a Lampedusa non ha frontiere terrestri e dunque la situazione è più complicata. Questo non solo per motivi logistici, ma anche politici: nel nostro Paese l’idea di arginare il flusso migratorio con un maggior controllo delle coste non piace a una parte dell’attuale maggioranza di governo. L’unica via attualmente praticabile potrebbe essere rappresentata da accordi con i Paesi da cui si origina il flusso. Non a caso il primo viaggio all’estero da presidente del consiglio Mario Draghi l’ha compiuto a Tripoli, lì dove ha incontrato l’omologo libico Abdul Hamid Ddeibah, anch’egli da poco insediato alla guida del suo governo. L’obiettivo è dare alla Libia gli strumenti per fermare l’opera dei trafficanti, anche se le coste della Tripolitania al momento rimangono in mano ai miliziani.
Roma sta cercando di muoversi anche sul fronte europeo, provando a far passare la proposta su meccanismi automatici di redistribuzione dei migranti e potenziando con Bruxelles i piani per i rimpatri volontari. Ma non è affatto semplice. Tuttavia limitare gli sbarchi potrebbe voler dire interrompere o quanto meno ridimensionare il passaparola tra i migranti. Dunque per il nostro Paese presentare numeri meno allarmanti sul fronte sbarchi non appare soltanto un obiettivo politico, ma una strategia a lungo termine per evitare di alimentare futuri flussi migratori.
La gestione dell’immigrazione è regolata in Europa dal Trattato di Dublino, firmato nel 1990. Da più di 30 anni questo documento è al centro dei riflettori perché ha più volte mostrato le sue gravi lacune. Assegnando ai Paesi di primo approdo l’onere dell’accoglienza, su Dublino sono state avanzate diverse richieste di modifica. Ad oggi però l’Europa non ha mai messo realmente mano al Trattato. E per il prossimo futuro, non sembrano esserci novità all’orizzonte. Nessuna buona nuova nemmeno in vista del Consiglio europeo del 24 e 25 giugno prossimo.

Un trattato nato malamente
Nel 1957, anno in cui è stata fondata la Cee, gli Stati aderenti avevano deciso di tenere per sé in modo esclusivo le decisioni sul tema migratorio. Una scelta che sembrava superata alla vigilia dell’istituzione del mercato unico europeo. Si è arrivati così al 15 giugno 1990, giorno in cui, con la firma del trattato di Dublino, l’Europa ha voluto dotarsi di strumenti unitari per la gestione dell’immigrazione. Qualcosa però è andato storto: “Il problema di quel trattato – ha infatti spiegato su InsideOver l’analista politico Arduino Paniccia – è che da subito è apparso molto singolare. Nel costituirlo non si è pensato ad alcuna strategia specifica, né tanto meno realmente unitaria”.
Il dito è stato da sempre puntato soprattutto sull’articolo 13 del trattato, quello che assegna ai Paesi di primo approdo l’onere dell’accoglienza e dell’esame della domanda di asilo. Un principio che ha messo in ginocchio negli anni gli Stati di frontiera, tra cui ovviamente l’Italia: “Il cuore dell’Europa si è voluto proteggere – è la chiave di lettura data da Paniccia – e ha delegato ai Paesi di periferia la gestione di un problema così importante”. C’è chi però ha visto nella situazione specifica di inizio anni ’90 un’attenuante: “Ma in realtà già all’epoca – ha proseguito l’analista politico – era possibile prevedere quello che sarebbe successo”. Ad esempio la pressione migratoria dall’Africa era in aumento. Inoltre, con la caduta del comunismo, i Paesi dell’est risultavano molto esposti. Eppure si è salvaguardato soltanto il centro, sud ed est Europa sono stati lasciati colpevolmente soli.

Gli errori dell’Italia negli ultimi anni
Scelte errate di cui oggi si paga lo scotto: “Il trattato di Dublino – ha proseguito Paniccia – è un po’ la cartina di tornasole di come ha agito l’Europa negli ultimi 30 anni. I problemi più importanti vengono affrontati come singoli problemi locali, senza arrivare a decisioni più strategiche”. Ma al di là degli errori in ambito comunitario, gli sbagli sono stati anche dei singoli Stati nazionali. L’Italia ad esempio non ha mai inciso nel richiedere le modifiche al trattato: “Ci abbiamo messo anche del nostro – ha sottolineato l’analista – avevamo molti strumenti, ma non li abbiamo usati”. Se da un lato infatti è vero che diversi nostri governi hanno chiesto riforme, dall’altro però sul piatto delle varie trattative non sono state inserite concrete proposte.
Né tanto meno è stata attuata un’opera diplomatica volta a far pressione su Bruxelles
Le carte sarebbero state diverse, a partire dalla costituzione di un fronte comune tra i Paesi affacciati nel Mediterraneo e quelli dell’area balcanica. Così come l’Italia avrebbe potuto puntare su specifiche interlocuzioni con Paesi extra europei, da cui si originano i flussi migratori. Se è vero che alcuni accordi sono stati conclusi, è altrettanto vero però che non si è mai costituita una vera agenda volta a risolvere alla radice i problemi. Una “miopia forte”, per come è stata definita da Paniccia, che ha impedito di arrivare ad oggi, alla vigilia di nuovi incontri europei, con documenti più incisivi alla mano.

Il fenomeno migratorio preoccupa l’Italia
La questione degli oneri legati alla prima accoglienza sempre più attuale. In Italia la situazione è piuttosto preoccupante. Nel 2021 gli sbarchi dei migranti non hanno conosciuto sosta nemmeno durante la stagione invernale e adesso, con condizioni climatiche più favorevoli, la situazione è degenerata. Barchini e gommoni sono arrivati con una certa costanza lungo le coste meridionali, soprattutto a Lampedusa.  In alcune circostanze, sono state registrati anche ondate di sbarchi con più di mille stranieri approdati in un solo giorno. Dall’inizio dell’anno ad oggi sono sbarcati in Italia 16.817 migranti. L’arrivo degli extracomunitari in numeri cosi prepotenti mette in difficoltà il sistema di accoglienza e con esso anche quello dei ricollocamenti. Motivo per il quale l’Italia ha più volte sollecitato la solidarietà dell’Unione europea. Solidarietà che fino ad oggi non si è ancora sentita dal momento che gli Stati membri si sono manifestati sordi ai richiami. L’Italia, in un contesto di isolamento, ha cercato di accendere i riflettori sull’argomento durante il Consiglio europeo dello scorso 24 e 25 maggio senza però portare risultati a casa. L’unica nota positiva è stata quella di poter inserire il tema sui ricollocamenti nell’agenda del prossimo Consiglio, fissato per il 24 e 25 giugno.

Cosa aspettarsi dal prossimo Consiglio europeo
Se nel corso del precedente summit europeo l’argomento immigrazione è stato appena accennato, per il prossimo Consiglio il tema dovrebbe ricoprire una posizione meno marginale. É possibile ipotizzare concrete proposte di riforma del trattato di Dublino? Cosa aspettarsi realmente dai Paesi Ue? Niente di buono secondo Arduino Paniccia: “Al prossimo Consiglio europeo – ha detto l’analista politico su InsideOver – non ci saranno novità di rilievo. Credo francamente che assisteremo a un nuovo teatrino inconcludente che non porterà a nulla”. Paniccia è fermo nel ritenere  che un tema del genere non può essere affrontato come semplice ordine del giorno di una riunione europea : “L’Europa – ha affermato Paniccia – agisce scegliendo cure palliative e soluzioni di portata locale, quando invece occorrerebbero soluzioni di lungo termine e visioni allargate alla situazione nel Mediterraneo. Servirebbe il dialogo con i Paesi extra Ue, in particolare con la Turchia”. Dal governo si sta provando a seguire la scia del dialogo con i Paesi terzi. Durante il vertice sulla sicurezza svoltosi a Firenze il 14 giugno, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha ribadito l’importanza di coinvolgere le nazioni della sponda sud del Mediterraneo, anche se con riferimento solo agli accordi sui rimpatri.
Anche perché l’estate è ormai alle porte, il fenomeno migratorio ha messo già le basi per raggiungere il suo apice e, ancora una volta, non ci sono soluzioni all’orizzonte. “Il problema immigrazione – ha spiegato Arduino Paniccia – ha una portata talmente ampia che, a prescindere dai discorsi che si faranno nel consiglio europeo, è difficile immaginare una soluzione entro giugno. Quindi dobbiamo aspettarci, tra le altre cose, anche un’estate di fuoco, contrassegnata da un’impennata di sbarchi”.
Posta tra il Sahara e il Sahel, Agadez è stata per anni meta turistica. Il suo deserto, la sua cultura tuareg, i suoi beni patrimonio dell’umanità, hanno attratto migliaia di persone fino all’inizio del nuovo secolo. Cosa è successo dopo? L’instabilità, il terrorismo, l’insicurezza, hanno isolato la regione devastando l’economia. Gli abitanti hanno quindi dovuto convertire le proprie attività. Oggi, chi trasportava turisti nel deserto, porta i migranti in Libia.

Agadez: il lasciapassare per i migranti
Il viaggio dei migranti che attraversano il Mediterraneo centrale per arrivare a Lampedusa inizia da molto lontano. Agadez è la chiave di tutto. Se l’Isola maggiore delle Pelagie viene considerata la porta di ingresso per accedere in Europa, questa città del Niger rappresenta invece la porta d’uscita dall’Africa. Situata a pochi chilometri dal confine con la Libia, ad Agadez confluiscono i migranti che hanno intenzione di risalire il Sahara e imbarcarsi nel Mediterraneo. Il Niger in questo contesto dà, suo malgrado, un vantaggio ai trafficanti di esseri umani. Il Paese fa infatti parte della Cedeao (o Ecowas, secondo che si utilizzi l’acronimo in francese o in inglese). Si tratta di un’organizzazione che ha sede ad Abuja e corrisponde a una sorta di Unione Europea dell’Africa occidentale.
Tra i 15 Paesi membri (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa D’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo), non esistono dogane e nemmeno controlli alle frontiere. In tal modo i cittadini possono circolare liberamente. Per cui basta prendere un normale autobus di linea ed arrivare prima a Niamey, capitale del Niger, e successivamente ad Agadez. Da qui poi si risale verso il confine libico con l’intento di giungere lungo le coste del mare nostrum. La città in questo modo si è trasformata nella base principale per i trafficanti, una delle tappe più importanti durante i viaggi della speranza di migliaia di persone.

Com’era Agadez prima
Ma non è sempre stato cosi. Anzi, per via della sua posizione, Agadez ha rappresentato negli anni passati un polo di attrazione turistica. La città è punto di riferimento della cultura Tuareg del Niger, il suo centro storico non a caso è stato incluso tra i beni patrimonio dell’umanità dall’Unesco. La grande moschea, il vecchio quartiere, le riserve naturali e i musei, per molto tempo sono state tappe “obbligatorie” da seguire per conoscere meglio le tradizioni del territorio. Chi voleva immergersi in un’avventura nelle peculiarità della vita nel deserto, magari ripercorrendo le strade lungo la sabbia tracciate nei secoli dalle carovane, ha avuto in Agadez un riferimento. Anche perché qui per anni ha fatto tappa la Parigi-Dakar, una delle gare più affascinanti e seguite nel mondo dei motori.
“Il turismo – ha spiegato su InsideOver Marco Alban, un rappresentante dell’Ong Cisv Italia, molto attiva nel Paese africano – nella regione del Sahel ha spesso assunto un significato importante. Nel Mali ci sono state annate dove sono stati registrati anche 450mila turisti. Discorso molto simile vale anche per il Burkina Faso”. Il rappresentante dell’Ong ha anche sottolineato come nel Niger i numeri sono stati storicamente più bassi, ma il settore ad Agadez è stato comunque rilevante: “Soprattutto perché – ha sottolineato – creava un certo indotto popolare. Essendo un turismo di avventura, i visitatori dormivano nelle case degli abitanti di Agadez, compravano oggetti tipici della cultura locale”. Ma da quando è iniziata la guerriglia islamista, dopo il 2010, si è venuto a creare un clima sempre più instabile che ha reso e rende poco sicuro l’accesso a chi proviene da altre Regioni.

Jihadismo e instabilità: ecco come Agadez si è trasformata in un inferno
Tutto è cambiato con l’avvento del nuovo secolo. A un certo punto nemmeno la Parigi–Dakar ha percorso le vie del deserto. L’insicurezza ha portato via da qui quel mondo attratto dalle bellezze naturali e culturali. Agadez ha iniziato così la sua discesa verso l’inferno. Una situazione peggiorata poi a partire dal 2012: in questo anno nel vicino Mali i gruppi jihadisti attivi nel Sahel hanno fondato dei piccoli califfati, respinti sì dopo l’intervento delle forze francesi, ma premonitori di quello che sarebbe accaduto da lì a breve. Infatti il terrorismo islamista ha messo le sue basi in tutta la regione, Niger compreso. Non solo sigle legate ad Al Qaeda, qui ad attecchire è stato anche il temibile gruppo dello Stato Islamico del Grande Sahara, costola dell’Isis.
Le bancherelle di Agadez si sono svuotate, i carovanieri dei turisti hanno dovuto riporre i propri mezzi nei depositi: “Il crollo dell’economia turistica non è l’unica nota negativa degli ultimi anni – ha dichiarato Marco Alban – più che altro esso può rappresentare la percezione di quanto negativamente sta accadendo in Niger. Il fatto di non poter più visitare questi luoghi infatti, la dice lunga sull’isolamento internazionale che sta vivendo il Paese per via delle tensioni jihadiste”. Ad essere stata devastata è stata l’intera economia nigerina e del Sahel. I gruppi islamisti ne hanno così approfittato: “Di fatto – ha aggiunto Alban – i terroristi sono diventati gli unici “datori di lavoro” nel nord del Niger. Molte famiglie sopravvivono grazie agli stipendi garantiti dalle organizzazioni jihadiste”. In questo contesto, per milioni di migranti subsahariani è stato più semplice raggiungere Agadez. E qui poi chi ha perso il lavoro con il turismo, si è “riconvertito” sfruttando le rotte migratorie. In tanti hanno iniziato ad improvvisarsi passeur, trasferendo i migranti dalla città al confine libico. Agadez in tal modo si è trasformata nell’attuale porta dell’inferno.

Le cause collaterali del terrorismo sull’immigrazione
Se si parla con un comune cittadino di Agadez, quanto avviene qui è normale: i migranti sono come i turisti, portano soldi e i carovanieri non fanno altri che accompagnare loro da un punto A, a un punto B. Quello che avviene oltre quel punto B, rappresentato dalla Libia, non è più a un certo punto affar loro. Una complicità motivata dalla mancanza di alternative lavorative. Tanto è vero che quando con la legge 036 del 2015 il governo del Niger ha criminalizzato il traffico migratorio, in molti hanno storto il naso. Chiudere la porta d’uscita dell’Africa, poteva significare spegnere nuovamente l’economia locale. In parte così è stato: dopo il giro di vite tra il 2015 e il 2016, molti mezzi usati dai carovanieri sono tornati nei depositi. Ma il flusso non si è mai fermato e in parte ha preso una via inversa, da sud verso nord: in tanti sono tornati dalla Libia, posto sempre più pericoloso in cui vivere.
A prescindere dalle direzioni dei flussi, da Agadez arriva una lezione anche per l’occidente: il terrorismo favorisce l’immigrazione in due modi, uno diretto e uno indiretto. Nel primo caso si ha la situazione più comunemente nota: dove c’è instabilità, la gente tende a scappare ed a cercare rifugio altrove. Il secondo è il caso che riguarda proprio Agadez. L’emersione delle violenze jihadiste ha come effetto quello di ledere significativamente le economie, dando così terreno fertile ai criminali per proliferare. Anche a quelli che sfruttano la tratta degli esseri umani, i quali hanno maggior margine di manovra per trasferire migranti verso l’Europa.

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