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La pastasciutta nacque sul Tirreno?

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Etrusca come il fascio e l’alloro

Gli Etruschi, già tremila anni fa conoscevano la pasta fresca, che, suppergiù, somigliava alla nostra fatta in casa: un bell’impasto di farina e uova da «piallare» con il mattarello in una sfoglia sottile che tagliavano a strisce regolari con una rotella dentata. Proprio come fanno ancora le resdore romagnole e le altre benemerite donne italiane (in via d’estinzione) che conoscono e custodiscono la tradizione della cucina famigliare. Le tagliatelle etrusche, condite con il ricercato formaggio di Luni, che veniva grattugiato come noi facciamo adesso con il Parmigiano Reggiano, erano una delle tante voci del dovizioso menù delle famiglie patrizie. Quelle povere dovevano accontentarsi di zuppe di farro e ceci, pappe con lenticchie o dell’acquacotta, un piatto che si preparava con la verdura di stagione. Curioso: anche questo piatto povero è arrivato fino a noi: è un piatto tipico, e non più tanto povero, della Maremma e della Tuscia viterbese, territori dominati dagli Etruschi.
I Romani – parliamo sempre di cucine ricche – consumavano allo ientaculum (la prima colazione) ciò che era rimasto dalla cena del giorno prima. Generalmente gli adulti mangiavano olive, capperi, uova, formaggio, pane e miele. Per i bambini c’erano latte e focaccine. Erano le brioches di allora, che Marziale cita in un epigramma invitando i bambini a uscire dal letto: «Surgite, iam venda pueris ientacula pistor» («Alzatevi, il fornaio già vende le focacce ai bimbi»). Ben diversa era la colazione delle famiglie povere costituita da puls fabata (zuppa di farro e fave), pane nero e un po’ di formaggio. Ma il momento gastronomico forte per i trimalcioni romani era il banchetto che dal tardo pomeriggio durava fino a notte. S’iniziava con la gustatio, l’antipasto nel quale veniva servito di tutto e di più: ostriche, ricci di mare, lucanicae (i salsicciotti della Lucania), uova, tordi, lepri, asparagi, olive di Gaeta e Spagna, verdure varie. Poi cominciava la vera cena con la processione degli schiavi che portavano sulle tavole murene di Sicilia, orate, gamberi, rombi e tutto il pescato fresco che arrivava in giornata da Ostia. Si continuava con la selvaggina – fagiani, beccafichi, piccioni, ghiri – con la porchetta, i pasticci di pollo, il ficatum (fegato ingrassato con fichi). Su tutti i cibi dominava il garum, una salsa di interiora di pesce fermentate che i Romani usavano come oggi nei ristoranti giapponesi si usa la soia. Poeti, ballerine e derisores (pagliacci) intrattenevano gli ospiti ognuno dei quali, a fine cena, tornava a casa con la sportula di avanzi per la colazione del giorno dopo.
Inizia così, illustrando le cucine, i fantasmagorici piatti e le straordinarie portate delle due antiche civiltà italiche la Storia della cucina italiana a fumetti (sottotitolo: Dalle tagliatelle etrusche al tiramisù), che è in questi giorni nelle edicole. Il libro, pubblicato dall’Accademia italiana della cucina, istituzione culturale della Repubblica italiana fondata nel 1953 dal giornalista Orio Vergani con lo scopo di tutelare le tradizioni, è il primo a raccontare a fumetti il trimillenario itinerario della cucina tricolore. L’idea della Storia della cucina italiana a fumetti è di Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, che conta settemilacinquecento associati in cinquanta Paesi del mondo (duecentoventiquattro delegazioni in Italia, ottantasei all’estero). «Il libro è stato pensato per i ragazzi delle medie, per aiutarli a conoscere la storia della cucina italiana. Poco conosciuta, del resto, anche dagli studenti degli istituti alberghieri. Mi sono ispirato a Enzo Biagi, che per invogliare i ragazzi a studiare la storia d’Italia la tradusse in fumetti. Fu un successo: i ragazzi la lessero volentieri e i loro genitori idem. Sono convinto che succederà altrettanto con questa nostra storia e gli studenti capiranno come si è evoluta la cucina italiana, candidata a diventare Patrimonio immateriale dell’UNESCO. Per arrivare a questi risultati eccezionali la strada è stata complessa e lunga tremila anni. È questo che raccontiamo nel libro grazie, anche, ai contributi storici dei membri del centro studi dell’Accademia». I testi di Marco Madoglio sono semplici, didattici ma non pretenziosi; i disegni di Federico Pietrobon immediati e fedeli. Insomma, è un volume piacevole da leggere da soli o in famiglia.
Dopo Roma troviamo il Medioevo, che odora di cipolla e aglio, pane d’orzo o di segale. Anche la carne dei signori feudali olezza forte: per nascondere eventuali cattivi odori è aromatizzata con spezie, timo, salvia, rosmarino. Si fa sempre più uso dell’agrodolce, una salsa ricavata da aceto, agresto (sorta di aceto che si ricava dall’uva acerba), succo di limone e zucchero. A tavola non ci sono piatti, ma pezzi di pane sui quali appoggiare il cibo e i commensali si passano le rare coppe per bere.
La dominazione araba mette un marchio sulla cucina siciliana, che dopo duemila anni brilla ancora: costolette d’agnello con rosmarino ed erba cipollina; vermicelli con le sarde, pinoli, uvetta e finocchietto selvatico; arancini di riso; cous cous. E i dolci? Uno più delizioso dell’altro: cannoli, cassata, pasta reale di mandorle.
Nel Rinascimento la cucina diventa un’arte proprio come pittura, scultura, architettura, musica, poesia. Si consolida l’uso della forchetta fino ad allora vista come un arnese diabolico. Si imparano le buone maniere si usa il tovagliolo nelle corti e nei palazzi borghesi si apparecchiano le mense con vasellame lussuoso. In questo periodo nascono i cuochi scrittori: Maestro Martino, Bartolomeo Sacchi, Bartolomeo Scappi.
Ma il grande balzo in avanti la cucina italiana lo fa con la scoperta dell’America e l’arrivo dal nuovo mondo di prodotti che rivoluzionano ricette, piatti, gastronomia con conseguenze su costumi, economia e perfino sulla salute del Bel Paese. Stivati nelle caravelle di Colombo e dei conquistadores ci sono prodotti mai visti: patate, pomodori, fagioli, fichi d’India, mais, peperoni, peperoncini, tacchino, cacao… Non ci si abituerà a tutto subito, ma in due secoli la cucina italiana creerà opere d’arte come la pasta e fagioli, gli spaghetti al pomodoro, i peperoni ripieni, la cioccolata calda. E la polenta, buona se accompagnata con carne e verdura, apportatrice di malattie (la pellagra) per i miserabili che l’avranno come unico e nudo cibo quotidiano.
Dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento la storia della cucina italiana, così diversa tra Nord e Sud, tra regione e regione, è tutta un sussulto di novità. S’impone la cucina borghese che trova il suo cantore in Pellegrino Artusi, nascono i ristoranti e il servizio al tavolo; arrivano dalla Francia il menu, la lista dei piatti, l’organizzazione in cucina con chef e brigata, il servizio alla russa che prevede di portare, direttamente dalla cucina, il piatto con le vivande a ciascun commensale. Si perfeziona la conservazione dei cibi. Un piemontese, Francesco Cirio, mette in scatola i pomodori pelati. È un trionfo.
La Storia della cucina italiana a fumetti nelle ultime pagine diventa il ricettario di alcuni tra i piatti più rappresentativi della cucina regionale mostrando, vignetta dopo vignetta, come prepararli: spaghetti all’amatriciana, spaghetti cacio e pepe, alla pummarola, trenette al pesto, tagliatelle al ragù, lasagna al forno, risotto alla milanese, pasta e fagioli e, ovviamente, la pizza. Dulcis in fundo panettone, pandoro, torrone, panforte, gianduiotto, gelato e tiramisù.

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