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L’aria del Rigoletto

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La Cgil al circo Massimo in uno scenario da “oggi le comiche”

A furia di esagerare non sanno davvero più cos’è il ridicolo. I baroni della Cgil hanno affermato che al Circo Massimo ci fossero addirittura due milioni e settecentomila persone: ovvero un’altra Roma, intera intera! La questura ribatte con un realistico duecentomila.

Chi sia stato al Circo Massimo alla festa per il terzo scudetto giallorosso, ove le stime, ritenute spaccone, parlavano di un milione di persone, sa bene che non c’era spazio per sedersi, per muoversi e neppure per svenire, tanto pigiata era la folla. Le immagini televisive prese da vicino hanno mostrato invece le masse cigielline ben spaziate tra loro, file larghe e distanziate. Se i romanisti furono davvero un milione, e forse è un’iperbole, i partecipanti all’happening di Epifani saranno stati a stento duecentomila, più facilmente qualche decina di miglaia in meno.

Se invece il milione dei tifosi è una leggenda, allora non solo la messinscena sindacale non ha avuto un grande successo ma si è rivelata un clamoroso flop.

Le rodomontate dei baroni della politica partitica e del clan sindacale suonano quindi alquanto grottesche: il bagno di folla non c’è stato. Soprattutto se si calcolano i milioni di euro che la commediola è costata, come sempre, alla collettività; se si considerano, pertanto, le trasferte gratuite e quelle precettate, Epifani ha ben poco da sorridere.

D’altronde sorridere di che? A cosa serve oggi il sindacato? Costa un miliardo e ottocentocinquantaquattro milioni di euro annui alla collettività, ha sgravi fiscali assoluti e preoccupanti, possiede introiti immobiliari, gestisce business caf e tfr. È una casta di burocrati, di privilegiati e di filtri sociali.

Cosa vuole il sindacato? Non si sa. Demagogia dozzinale a parte, ripete le formule americane per la risposta alla crisi ma, soprattutto, chiede di non essere estromesso dal tavolo delle trattative. Teme di essere ridimensionato, di non contare più come prima, soprattutto nei suoi privilegi e nei suoi bilanci.

Non ha una linea politica. Si limita a schiacciare i precari (che ha contribuito a costituire) in nome di una lotta generazionale a vantaggio dei più vecchi. Tutta la base sindacale è variegata e striata a piramide; la struttura privilegia i privilegiati. Il sindacato è un elemento di filtro, di spartizione e di controllo sociale. Sono decenni che ha abbandonato qualsiasi vocazione reale a difesa del mondo del lavoro; è corresponsabile della politica di delocalizzazione. Non ha un’ipotesi di lavoro per il futuro e non prova a rinnovarsi ma s’impegna soltanto, tenacemente, a sostenere prebende e privilegi acquisiti.

La mossa di Epifani è piccola piccola: prova a cavalcare la crisi globale barando e cercando di proporla come colpa del governo in carica. Ora, quali che siano le carenze, le complicità o le colpe del governo in merito, nessuno più, davvero nessuno, ignora che quelle del sindacto sono ben più antiche, profonde e strutturali. E tutti sanno perfettamente che questo sindacato non ha nulla da dire e nulla da dare ma che pretende, soltanto, di continuare a prendere.

In queste condizioni la kermesse di oggi, 4 aprile, non poteva essere altro che una risibile passerella di nullità. Ciliegina sulla torta l’intervista a Shel Shapiro, ex leader di una band musicale degli anni sessanta, a lungo manager ricchissimo e di successo, che da buon “proletario” si è speso per la banda Epifani. Sullo sfondo anche una vecchia canzone del suo gruppo, i Rokes: “È la pioggia che va”. Ma, visto il periodo, la colonna sonora più adatta sarebbe stata probabilmente un’altra celebre pièce del gruppo “Bisogna saper perdere”.

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