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L’avanzata di Pechino

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Intelligente, discreta, implacabile

Difendere gli investimenti economici all’estero, soprattutto nelle aree politicamente più instabili, affermare la qualità delle proprie aziende tecnologiche, distribuendone i prodotti a chiunque ne faccia richiesta, e, al tempo stesso, rafforzare i legami con Paesi terzi nell’ottica di stabilire un nuovo concetto comune di sicurezza. La Cina sta modellando un nuovo ordine globale, da dietro le quinte, facendo leva su un tema caldissimo, quello securitario appunto, assegnandogli un significato che trascende il mero ambito militare.
Le questioni di “sicurezza con caratteristiche cinesi” riguardano la Difesa, certo, ma comprendono anche ambiti quali il clima, il cibo, le catene di approvvigionamento, Internet, il commercio e l’energia. Di pari passo con la sua ascesa politica ed economica, Pechino si sta dunque specializzando nell’offrire al mondo intero un nuovo paradigma legato alla sicurezza. Il campionario è vasto e la Cina ha messo sul tavolo molteplici pedine.
Si va dalle società di sicurezza privata (PSC, Private Security Company) cinesi, pronte a garantire gli interessi globali in espansione del Paese, agendo anche come uno strumento strategico per assicurare una presenza armata in aree chiave in mezzo alle crescenti tensioni con gli Stati Uniti, alle centinaia di milioni di telecamere a circuito chiuso distribuite da società cinesi in decine di migliaia di città sparse in tutto il mondo. Per non parlare, poi, della fiorente industria dei droni cinesi, che ha ormai surclassato i rivali occidentali e messo stabili radici in Medio Oriente (e non solo), e della volontà del Dragone di offrire addestramento ad agenti di polizia di Paesi esteri desiderosi di accrescere le loro competenze.
Per la Cina, tutto questo, è un tassello in più che si aggiunge al processo di maturazione della nazione. Un segnale, nonché un marchio distintivo che, nel lungo periodo, dovrebbe certificare l’ingresso, o meglio il ritorno, di Pechino nel novero delle grandi potenze capaci di influenzare la comunità internazionale. Per il blocco occidentale, Stati Uniti in primis, il dinamismo cinese è invece sinonimo di pericolo. Washington considera infatti la sicurezza uno dei tanti cavalli di Troia che la Repubblica Popolare Cinese utilizzerebbe per controllare Paesi terzi. La “mano invisibile” della Cina diventa così una minaccia mortale, addirittura una sfida sistemica. Al di là delle rivalità geopolitiche tra l’Aquila e il Dragone è interessante soffermarci sul modus operandi cinese in materia di sicurezza globale.

Che cos’è la Global Security Initiative della Cina
In occasione del XX Congresso del Partito Comunista Cinese, i suggerimenti di Xi Jinping sono chiari: la Cina dovrebbe rafforzare la capacità di garantire la “sicurezza all’estero, proteggere i diritti e gli interessi dei cittadini cinesi e delle persone giuridiche” che si trovino oltre confine, lasciando supporre un ruolo più ampio delle società di sicurezza privata nella protezione dei progetti della Belt and Road Initiative (BRI).
Come ha sottolineato Asia Times, bisogna distinguere il ruolo delle richiamate società di sicurezza privata, che solitamente proteggono un punto strategico in terra straniera, sia esso un’ambasciata, un porto o una base militare, da un appaltatore militare privato, il quale si impegna in una più vasta varietà di operazioni militari.
Nel 2018 il think tank MERICS ha realizzato un report intitolato Guardians of the Belt and Road. The internationalization of China’s private security companies. Nella ricerca si legge che su 5.000 società di sicurezza privata cinesi registrate 20 forniscono servizi internazionali, con 3.200 dipendenti operanti in Paesi che vanno dal Sudan al Pakistan passando per l’Iraq. Il loro numero effettivo, a distanza di due anni e in vista dei prossimi, potrebbe aumentare considerevolmente. Un recente report della Jamestown Foundation intitolato The Contemporary Global ‘Security for Hire’ Industry: An Overview accende i riflettori sul peso che queste società di sicurezza cinesi hanno nell’industria globale del settore. Mentre l’industria globale varrebbe tra i 100 e i 224 miliardi di dollari l’anno, quella cinese all’estero si aggirerebbe intorno ai 10 miliardi. Una goccia nell’oceano, al momento, a maggior ragione se dovessimo fare un confronto con il peso delle società di sicurezza degli Stati Uniti, con Washington che al momento è il maggior consumatore al mondo di servizi militari e di sicurezza privati.
Tornando alla Cina, la maggior parte dei progetti BRI si concentra in ambienti instabili, poveri e attraversati da conflitti, come Pakistan, Nigeria, Myanmar e Sri Lanka. Da questo punto di vista la BRI ha creato e sostenuto la domanda all’estero dei servizi di sicurezza privati cinesi. Il motivo è presto detto: a causa dei contesti a dir poco turbolenti nei quali sono incastonati gli investimenti cinesi, le risorse e il personale stesso della BRI rischiano di trasformarsi in obiettivi di malcontento da parte di gruppi terroristi, emarginati o estremisti.
Ma per quale ragione la Cina non schiera il suo esercito e preferisce affidarsi a queste società private? Affidarsi all’Esercito Popolare di Liberazione per proteggere i progetti della BRI all’estero potrebbe innescare nei Paesi in via di sviluppo la percezione del militarismo, dell’espansionismo e del neocolonialismo cinesi. E cioè le stesse pratiche a cui il presidente Xi allude spesso ritrarre negativamente gli Stati Uniti e l’Occidente.

La sicurezza con caratteristiche cinesi
In merito a quanto ricostruito ci sono due interpretazioni. C’è chi sostiene che la Cina possa utilizzare le società di sicurezza private come semplice elemento di difesa a sostegno dei propri interessi all’estero, e chi ipotizza un loro utilizzo per scopi geopolitici più ampi. Operando in un’area grigia legale, sostengono i fautori di quest’ultima interpretazione, le Psc possono finire sotto il controllo diretto del governo e diventare un mezzo asimmettrico che consentirebbe a Pechino di proiettare la propria forza oltre la Muraglia.
Nikkei Asian Review ha toccato un altro aspetto cruciale: la Cina sta esportando all’estero le apparecchiature tecnologiche che utilizza in patria a scopi securitari. Nello specifico, più di 3 milioni di telecamere a circuito chiuso fornite dalla cinese Hikvision sono collegate a Internet 24 ore al giorno in ben 33.000 città in tutto il mondo. Aziende come Huawei, inserita nella black list Usa, hanno invece fornito pacchetti “città intelligenti” in oltre 160 Paesi e regioni.
Come se non bastasse, vale la pena evidenziare la diffusione delle forze dell’ordine e delle pratiche di sicurezza in stile cinese. Lo scorso ottobre, ad esempio, un gruppo di 32 agenti di polizia delle Isole Salomone è volato in Cina per studiare le tecniche di polizia locali. Pechino ha poi annunciato di voler costruire un complesso di addestramento delle forze dell’ordine in Tagikistan, dopo che Xi si è offerto di addestrare migliaia di ufficiali e di istituire una struttura di istruzione antiterrorismo per gli Stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Agli occhi di Pechino queste pratiche rientrano nella Global Security Initiative, “un nuovo concetto di sicurezza che può sostituire il confronto e la mentalità a somma zero con dialogo, partnership e risultati vantaggiosi per tutti”, hanno spiegato le autorità cinesi.
Per quanto riguarda i droni, la Cina è diventata leader mondiale nella produzione di questi apparecchi. Due tipi: la tipologia Wing Loong realizzata dal Chengdu Aircraft Industry Group (Caig) e la Cai Hong “Rainbow” che fa capo alla Chinese Aerospace Science & Technology Corporation (Casc). Entrambi sono in grado di attaccare bersagli da distanze di sicurezza usando bombe guidate dal Gps e missili controllati. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno usato Wing Loong per mettere lo Yemen a ferro e fuoco; l’Egitto, invece, li ha utilizzati per togliere di mezzo gli insorti nel Sinai. La Cina fa affari d’oro, come ha confermato il South China Morning Post, secondo il quale, all’inizio del 2018, Pechino avrebbe esportato 30 droni CH-4B per un totale di 700 milioni di dollari.

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