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Le ali della libertà

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C’è chi muore in silenzio ma si batte anche per te

 

Villaggio di Ta U Plaw, distretto di Papun. 353 abitanti, tutti civili fuggiti dai loro originari

insediamenti per non essere deportati dall’esercito birmano in aree controllate dal regime

di Rangoon. Una scelta difficile. Una scelta di libertà che implica una vita sul filo del rasoio:

famiglie pronte in ogni momento a lasciare anche queste capanne di corsa, all’arrivo dei

soldati, una dieta alimentare basata su riso e sale e qualche verdura raccolta nella foresta,

il rischio quotidiano rappresentato dai sentieri minati, dalle malattie endemiche, malaria in

primis. Sono moltissimi i Karen che compiono questa scelta. Quasi mezzo milione di

persone che preferiscono affrontare la dura vita della foresta piuttosto di consegnarsi

all’invasore, ed essere assimilati in una “nuova società” o, come la chiamano i ricchi

generali birmani, in una “fiorente democrazia disciplinata”.

Sono le 9.00 del mattino del 19 febbraio. Roe Bee Moo, 16 anni, è nella piccola scuola di

bambù assieme ad altri ragazzini impegnati negli esami. Perché i Karen, anche in

condizioni di estrema difficoltà ed emergenza, cercano di mantenere una vita normale, e

per il loro rigoroso senso etico l’educazione dei più giovani è considerata una priorità. La

scuola trasmette valori tradizionali, fa capire ai più giovani cosa significa appartenere al

loro popolo e cerca inoltre di dotarli di conoscenze che forse un domani, se il paese sarà

libero, consentiranno loro di accedere a studi superiori.

Sulle colline circostanti il villaggio arrivano i soldati del 7° Military Operation Command, gli

sgherri che hanno il compito di terrorizzare i Karen per indurli alla resa.

Oggi hanno un lavoro di routine: un colpo di mortaio, magari due, nei villaggi che visitano,

così, tanto per “tenere sulla corda” quei cocciuti selvaggi, così attaccati alla loro terra.

Il proiettile fora il tetto di foglie della scuola, tocca il terreno ed esplode. Molti alunni sono

ancora fuori, in attesa del loro turno di interrogazione. Le schegge feriscono tre ragazzini.

Vengono trasportati alla clinica della Comunità Solidarista Popoli di Kay Pu, dopo un

viaggio in amache legate a grossi bambù sostenuti da portatori, le Jungle Ambulances.

Per due di loro non ci sono grossi problemi: vengono visitati e soccorsi dai “medics.” quella

via di mezzo tra infermieri e dottori che cerchiamo di formare grazie ai training che i nostri

medici tengono durante le missioni. Eh Kaw Thaw, 12 anni, e Ree Re, 10, hanno ferite alla

mano e alla gamba destra. Sono ora ricoverati. Per Roe Bee Moo (nella foto) la situazione è più grave. Una scheggia di metallo è entrata nel fianco destro, in profondità, e la clinica non ha strumentazione adeguata per poterla localizzare con sicurezza. Impossibile

intervenire: i medics decidono di trasferirlo in un’altra struttura, dove, pare, ci siano mezzi più adeguati. Ma nella giungla è così. Strumenti che da noi sono di uso comune, qui devono riuscire a passare inosservati dai controlli di polizia di frontiera tailandese, percorrere per giorni e giorni i sentieri, guadare fiumi e torrenti, e una volta giunti a destinazione affrontare le dure condizioni

ambientali, polvere nella stagione secca, umidità continua in quella dei monsoni. Così, anche nella seconda clinica Roe Bee Moo non può essere aiutato. La macchina non funziona. All’arrivo alla terza clinica, un giorno e mezzo dopo essere stato ferito, è già in condizioni disperate. Muore alle 3 del mattino del 21 febbraio.

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