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L’importante è finire

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Ma finire cosa e in nome di cosa?

 

De profundis per il governo gialloverde.
Leghisti e pentastellati separati in casa. Ognuno si cala in una parte, cercando di evocare qualcosina nel dna italico. Conte riesuma riferimenti ghibellini (Federico II di Svevia), Salvini sceglie riferimenti antimperiali o papisti (Cicerone, Giovanni Paolo II). Non è niente di più che una ricerca nell’inconscio collettivo, perché non vi è alcuno scontro – almeno a questo livello – tra guelfi e ghibellini.
Conte è già pronto per un nuovo ruolo; ricorrendo a più di un tema massonico, alla Kabbalah e alla Scuola di Francoforte, si propone come leader di una coalizione vasta che vorrebbe produrre infine un protagonismo italiano nel mondo. Un protagonismo che iscrive nella fedeltà europea, ma potete essere certi che, se passerà, avremo diritto alle solite arlecchinate invereconde, operando per Aquisgrana ma anche per Trump e per Londra/New York. Siamo sempre noi la causa del nostro male.

La svolta è stata certamente determinata dalla disfatta dei sovranisti in Europa a maggio e dal venir meno delle possibilità per Salvini di assumere un ruolo da protagonista, cosa che, fino alla caduta di Strache, sembrava realizzabile. Salvini, infatti, con un grande intuito e con una scaltrezza politica imprevista, dal 2017 si era smarcato dal ruolo “lepenista” che sarebbe servito a compattare qui, così come in Francia, una classe dirigente senza arte né parte e priva di consenso di massa. Ora rischia di sprofondare nuovamente in quella fossa dorata.
Dev’essersi accorto che non poteva più avanzare, o forse sapeva che gli effetti dei compromessi gialloverdi sarebbero stati presto pagati a caro prezzo, e ha voluto tirarsi fuori.

Quello che non si capisce è perché lo abbia fatto nei modi in cui lo ha fatto.
Dopo che i 5 Stelle avevano votato contro la Tav e che erano stati sconfitti, se proprio voleva interrompere la cooperazione, avrebbe potuto richiedere un consiglio dei ministri straordinario e pretendere formali impegni sulle opere pubbliche, ovvero farsi dire di no ma su temi che avrebbero rese ardue l’intesa con il Pd ed il prosieguo della legislatura.
Viceversa l’accusare, dal mare, un governo attivo, il richiedere le elezioni immediate pur sapendo che è molto improbabile che le ottenga, e il sostenere di farlo perché vuole che gli si concedano i pieni poteri sono altrettanti assist per far nascere quell’intesa giallorosa che si profila minacciosa all’orizzonte.
Impossibile capire perché abbia fatto questo e lo abbia fatto in questo modo.
Minacciato? È possibile. Qualche intervento dei nuovi avversari può essere letto in codice.

Ora che succederà? In mancanza di un formidabile intervento dall’alto (qualcuno pensa a Pompeo) è molto improbabile che la maggioranza dei deputati voti per andarsene a casa senza stipendio, pensione e vitalizio. A maggior ragione perché il sessanta per cento di essi, per cause diverse, è quasi sicuro di non venire rieletto.
Se ci sarà invece una maggioranza di scopo (Iva e altro) è probabile che tiri alla lunga fino all’elezione del Presidente, ovvero inizi del 2022. E che cambi la legge elettorale, magari reintroducendo il proporzionale puro, dato che, ad eccezione della Dc nel 1948, mai nessuno in Italia ha raggiunto da solo la maggioranza assoluta.
Così il sovranismo resterebbe relegato in un angolino e il populismo andrebbe pian piano stemperandosi.
Intanto le oligarchie avranno il tempo di mettere a frutto la spinta populista per correggere la rotta su alcuni punti, quali l’immigrazione massiccia.
Probabilmente si apre una fase nuova e molto complicata. Ora si vedrà chi ha le capacità strategiche necessarie e i nervi saldi.
Salvini fa appello alla piazza. Ma la piazza negli ultimi decenni ha sempre dimostrato, in Europa occidentale, la geometrica impotenza popolare in democrazia.
Staremo a vedere.

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