venerdì 19 Luglio 2024

L’incubo della “libertà”

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Andrea Augello, “Uccidi gli italiani: Gela 1943, la battaglia dimenticata”, Mursia, Milano 2009, pagg. 188, euro 15,00

Esemplare saggio di microstoria, il libro di Andrea Augello si pone un obiettivo lodevole: dimostrare che la Sicilia ’43 non fu l’isola della fuga e del disonore, della rotta dell’esercito italiano e della marcia trionfale di Montgomery e Patton. Renato Rascel canta: “È arrivata la bufera, è arrivato il temporale…”. La bufera arriva. Si chiama operazione Husky, l’invasione della Sicilia, l’attacco alla Fortezza Europa. Husky significa vigoroso. E non a caso. Gli anglo-americani mettono in campo più di 180mila uomini, 1.800 mezzi da sbarco, 600 carri armati, 1.000 cannoni e con 4mila aerei si assicurano il dominio del cielo. Il nostro dispositivo militare è precario: 180mila uomini, armi vecchie e insufficienti, molta truppa locale male addestrata, due cannoni ogni chilometro e un comandante, il generale Alfredo Guzzoni, “piccolo e rotondetto”, ripescato a 66 anni e scaraventato nel settore più esposto del sistema difensivo. Nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1943 l’armata anglo-americana si presenta davanti alle coste siciliane.
Le sagome nere delle navi sono più numerose delle barche intorno alla tonnara. Le navi sbarcano cannoni, carri armati, autoblinde, soldati come dal cappello di un prestigiatore. Le batterie costiere sono sommerse dai tiri dei grossi calibri. Sembra un film: il mare che brilla sotto la luna, le rapide vampate dei cannoni che lo illuminano come sotto una scarica di flash, le scie rossicce dei proiettili traccianti, i mezzi da sbarco che vomitano uomini e materiali, i soldati che saltano in acqua, le bombe che rivoltano il litorale, sradicano i vigneti, squarciano le case, sgretolano i bunker, riempiono le trincee di terriccio, sassi, fichi d’india, pezzi d’agavi e cadaveri. Con la luce cadono gli ultimi dubbi: lo sbarco è riuscito. Il bagnasciuga di Mussolini, che doveva essere la tomba degli invasori, sarà la cartina di tornasole della sconfitta.
La difesa italiana è discontinua: vile in alcuni comandi, generosa, in parte, a livello di truppa, povera di mezzi e mobilità. I ragazzi della divisione Livorno si battono bene e si caricano sulle spalle, insieme alla “Goering”, il peso della resistenza. La lotta si svolge nello stridente concerto delle cicale, a 40 gradi all’ombra, con la tortura della sete. La sproporzione delle forze in campo è evidente: gli Alleati hanno la tecnologia, i tedeschi i Panzer, gli italiani le braccia. La raccogliticcia divisione “Assietta” si sfalda ma sulle spiagge e nella piana di Gela la “Livorno” fa miracoli contro la devastante potenza di fuoco nemica. I parà inglesi sono determinati (“Uccidi gli italiani”, è la loro parola d’ordine) e gli americani si ispirano al generale Patton, celebre per il suo “si fottano, nessun prigioniero”. Ma i fanti della “Livorno” resistono fino all’ultimo, perdendo 2.200 uomini nell’inferno di Gela e scrivendo una pagina coraggiosa e sfortunata.
Il 16 agosto i carri Sherman entrano a Messina. Il 18 la campagna è conclusa, l’ostrica siciliana è stata aperta. Nonostante le diserzioni (il 14% per gli italiani) e le bandiere bianche, è stata sanguinosa. Ne fanno fede le tombe: 4.278 per gli italiani, 4.325 per i tedeschi, 5.187 per gli anglo-americani. Ora comincia l’attacco al Continente.
Andrea Augello ha scritto un libro appassionato: “Uccidi gli italiani, Gela 1943, la battaglia dimenticata”. La sua ricostruzione è accurata e, come scrive Anna Finocchiaro nella postfazione, “dà identità, attraverso numerose testimonianze, a molti ignoti siciliani che parteciparono agli eventi”. Esemplare saggio di microstoria, “Uccidi gli italiani” persegue un obiettivo lodevole e lo fa in modo convincente: dimostrare che la Sicilia ’43 non fu l’isola della fuga e del disonore. L’immagine accreditata e l’opinione comune consolidatasi nella memoria sono quelle di una rotta dell’esercito italiano e di una marcia trionfale di Montgomery e Patton. Gela, battaglia politicamente scorretta, è stata da molti dimenticata o misconosciuta. Augello, senza inutili concessioni alla nostalgia e senza costruire un’ara in favore dei difensori, tira un calcio negli stinchi alla retorica del soldato italiano cialtrone e lo fa con il contributo dei testimoni di allora: i pochi rimasti, pochi ma tutti consapevoli di avere fatto il loro dovere.

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