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Il boom è finito?

Il big tech rallenta e perde valore borsistico per il freno delle sue attività reali. La fine del Bengodi finanziario iniziato nel 2020 con le iniezioni di liquidità del periodo pandemico e segnata dalla corsa dei tassi si è accompagnata a una prima forma di rallentamento di entrate e utili che ha prodotto un effetto-contagio sui mercati.

Il valore in borsa del Big Tech frana
Quasi un trilione di dollari di capitalizzazione delle più grandi società tecnologiche statunitensi nell’ultima settimana di ottobre è andato in fumo prima di un rimbalzo parziale, che ha ridotto a 800 miliardi di dollari le perdite. Le perdite del mercato azionario hanno accelerato nella tarda serata di giovedì 27 ottobre dopo che Amazon ha preso in contropiede Wall Street con una flessione inaspettata nella previsione di entrate per il suo importantissimo quarto trimestre dell’anno. Il periodo ottobre-dicembre è quello in cui lo shopping natalizio normalmente sostiene i suoi ricavi. La società di e-commerce statunitense ha indicato che le entrate nel periodo saranno probabilmente inferiori di 15 miliardi ai 155 miliardi di dollari previsti dagli analisti.
La notizia ha dato continuità al trend che vede una stagione di utili sorprendentemente deboli da parte degli enormi gruppi digitali statunitensi. Il rallentamento ha posto fine all’eccezionalità di big tech nel quadro della tradizionale resistenza alle crisi dell’economia reale e indicato che anche i super-ricchi piangono nella fase della crescita dei tassi e dell’inflazione.

Finita l’era delle vacche grasse, fioccano i licenziamenti
Amazon e Microsoft hanno dichiarato che la crescita delle loro attività di cloud computing stava rallentando più del previsto poiché i clienti cercavano di frenare la crescita della spesa. Lo stesso vale per la raccolta pubblicitaria di Google. Nel frattempo, come riporta il Corriere della Sera, molte delle Big Tech tagliano il personale: “Twitter ha licenziato venerdì scorso metà dei suoi 7.500 dipendenti (anche se ora ne sta richiamando alcuni essendosi accorta che, nella fretta imposta da Elon Musk, ha cacciato anche gente essenziale per il funzionamento della piattaforma). Quello stesso giorno, sempre a San Francisco, Lyft, l’alternativa a Uber nei servizi di trasporto individuale, ha licenziato 650 dei suoi 5.000 addetti mentre Stripe (software per pagamenti elettronici) ha messo alla porta 1.120 dipendenti”.
Big Tech torna ai minimi dal maggio 2020, quando il combinato disposto tra denaro facile dell’amministrazione Trump e politiche accomodanti della Fed diedero impulso emergenziale alla nuova e torrenziale fase del quantitative easing globale, accelerando la tendenza delle aziende del settore a trasmettere in borsa la situazione materialmente favorevole venutasi a creare. La pandemia aveva in tutto il mondo reso le società occidentali dipendenti dalle connessioni offerte dai servizi in rete, dagli acquisti online, dalle chiamate da remoto. E il denaro facile e i tassi a zero avevano permesso ad aziende trovatesi di fronte a ricavi in volo di procedere a impetuose politiche di acquisto di azioni proprie (buyback) rimesse poi sul mercato con valori artificialmente gonfiati. Questo aveva portato aziende come Apple, Alphabet, Microsoft e Amazon attorno ai 1.500-2mila miliardi di dollari di capitalizzazione, una dimensione paragonabile ai Pil di Paesi come Messico, Russia, Spagna, Italia.
Diventava più conveniente per un investitore comprare azioni Tesla che auto del gruppo di Elon Musk, prenotare una quota dell’emissione azionaria di AirBnb che contribuire al suo fatturato operativo, iscriversi al “parco dei buoi” dei sottoscrittori di titoli Netflix che abbonarsi alle sue programmazioni.

Big Tech, da eroi a cattivi?
Non poteva durare: la hybris del Big Tech è stata quella di credere che l’emergenza potesse durare per sempre assieme all’eccezionalità dei guadagni che ha comportato. In una fase in cui il ritorno alla normalità aveva già colpito molti titoli (Netflix, Zoom, Deliveroo) tra i signori degli algoritmi non c’è stata la capacità di fare dei piani di contingenza per prepararsi al ritorno alla normalità. “In ogni grande recessione economica nella storia degli Stati Uniti, i cattivi sono sempre gli eroi del boom precedente”, ammava ripetere il guru dei manager Usa Peter Drucker.
Molti, applicando questo assioma, ragionano sul fatto che lo sgonfiamento delle quotazioni del Big Tech può aprire la strada a una riproposizione della bolla che travolse il Nasdaq nel 2000: allora, molte delle società nate come funghi negli Anni Novanta crollarono o chiusero i battenti per l’esplosione delle aspettative pessimistiche circa la loro capacità di stare sul mercato. Ma il paragone non regge: allora la tecnologia era una moda, oggi è un mainstream consolidato. Ai tempi seguiva i flussi di capitali, oggi li governa. Soprattutto, oggi i gruppi sono in crisi non per l’incapacità di fare profitto ma per la bulimia del modello che hanno creato: i cinque gruppi maggiori del Big Tech (Apple, Amazon, Meta, Microsoft, Alphabet) hanno riportato nell’ultimo trimestre un utile netto combinato di 59,5 miliardi di dollari, in calo del 17,8% rispetto ai 72,3 miliardi di dollari registrati un anno prima ma comunque un dato che, da solo, è paragonabile al 90% del fatturato totale di un gigante industriale come Eni nell’intero anno precedente.

Il paradigma della crescita infinita è una minaccia
Il paradigma della crescita infinita si somma alla difficoltà della gestione contingente del mondo tornato ad alzare i tassi e a trincerarsi contro l’inflazione. Nel 2019, scrivendo sul Guardian, Rana Foroohar sottolineava che “le aziende tecnologiche abbassano i prezzi di molte cose e la deflazione legata alla tecnologia è una parte importante di ciò che ha mantenuto i tassi di interesse così bassi per così tanto tempo”. Non ha solo “limitato i prezzi, ma anche i salari. Il fatto che i tassi di interesse siano così bassi, in parte grazie a quella deflazione guidata dalla tecnologia, significa che i banchieri centrali avranno molto meno spazio per navigare attraverso qualsiasi crisi imminente”: tre anni dopo, in seguito al ritorno dell’inflazione e alla scelta della Fed di alzare i tassi dopo che gli americani avevano lanciato nell’economia reale, negli acquisti e nella caccia a beni e servizi centinaia di miliardi di dollari risparmiati durante l’era Covid ci si è accorti di quanto questo sia vero.
E il Big Tech, alla prova dei fatti, perde la sua “specialità” per eccellenza: messo sotto pressione, al riflusso degli utili risponde come una qualsiasi azienda, con l’austerità e il taglio dei posti di lavoro. Tutto il mondo è Paese e lungi dall’essere un bis del 2000-2001 questa fase dovrà insegnare al Big Tech e ai suoi top manager l’importanza di ricordarsi di essere economicamente e finanziariamente mortali. Un memento mori da sottolineare e ribadire e a cui rispondere riequilibrando l’asse tra attività concrete e produttive da un lato e avventurismo finanziario dall’altro. Due anni fa su queste colonne, quando ancora non si parlava della crisi energetica aggiuntasi come nuovo cigno nero, ricordavamo che “l’esplosione dei listini, non essendo prevista un’immediata ripresa delle economie reali occidentali a livelli pre-Covid, può portare a una crisi sistemica” della finanza americana e occidentale. E nel 2023, se il trend continuerà, sarà questo quanto aspetta il sistema-mondo se Big Tech non capirà che l’era delle vacche grasse è finita, probabilmente per sempre, e che ciononostante i risultati economici potranno comunque consentirle di prosperare. L’alternativa è il caos e la distruzione di posti di lavoro per inseguire la chimera dell’inflazione dei listini, capace di esplodere in mano ai signori della tecnologia.

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