sabato 20 Luglio 2024

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vs Dolce & Gabbana

Valeva la pena di piantare tutto questo casino? «Tante briciole, dice il proverbio, fanno una panetteria», ribatte Domenico Dolce, «Era tutto un vocio fastidiosissimo…». «Ma scusi: come potevamo accettare di essere bollati come evasori? – irrompe Stefano Gabbana -. Noi siamo delle persone perbene. Viviamo in Italia, paghiamo le tasse in Italia, non facciamo finta di vivere all’estero…». State dicendo che la vostra è una storia tutta diversa da quella di Valentino Rossi o altri? Gabbana«Noi parliamo per noi. Ci limitiamo a chiedere: vi pare possibile che per gli stessi identici fatti, sulle stesse identiche carte, possiamo essere assolti nei processi penali e condannati in quello tributario? Noi sappiamo fare vestiti. Vogliamo fare vestiti. E invece siamo stati tirati in mezzo in una storia complicatissima di commi e codicilli».

Gli avvocati sanno di questo vostro sfogo?
G. «Sanno che noi siamo dei pazzi. Lo mettono in conto. Ma al di là dell’aspetto legale (non vogliamo neanche parlarne: siamo convinti di non avere fatto niente di scorretto) non ci rassegniamo a essere crocifissi come dei ladroni. Perché non lo siamo».
Dolce «Calunnia calunnia, qualcosa resta. Non ci va bene. Non è solo per noi. È per l’azienda. Parliamo di migliaia di persone, con l’indotto. L’altro giorno ho dovuto incoraggiare io delle sartine. Erano sconvolte. “Ma come! Noi! Noi!” Io dico: guardate la nostra vita…»

Cioè?
G. «Per esempio io ho una barca, si chiama “Regina d’Italia”: non la porto mica in Francia o in Croazia! Non la intesto mica a una società! Non batte mica bandiera delle Cayman! Io sono italiano e la barca la tengo in un porto italiano. E batte bandiera italiana».
D. «Vale anche per me. Anni fa Stefano mi regalò un motoscafo Riva. Lo uso pochissimo, ma lo tengo a Portofino e batte bandiera italiana».

Le case in cui vivete? Appartengono a qualche società oppure… 
D. «No, guardi. Casa mia è intestata a me, Dolce Domenico, nato a Polizzi Generosa, residente eccetera… Mica fingo di vivere in Svizzera o a Montecarlo. Le mie residenze sono sempre state quelle: Polizzi Generosa, Palermo, Milano».
Eppure in casi come il vostro… 
G. «Ma che ci importa di eludere il fisco? Noi vogliamo solo starcene tranquilli a fare vestiti. Punto. D’altra parte, vuole una dimostrazione di quanto siamo ossessionati dal denaro? Fino al 2004 avevamo tutto, diciamo così, “in comunione dei beni».

E allora? 
G. «Ma non stiamo insieme, come fidanzati, dal 2000! Se fossimo attaccati ai soldi lei pensa che avremmo tenuto i conti e l’azienda insieme per quattro anni dopo la nostra separazione? Eppure per quattro anni siamo rimasti così, metà a testa: 50 e 50. Con tutti che ci dicevano: chiaritevi, non potete lasciare le cose così, ci va di mezzo l’azienda». 
D. «Ci siamo decisi quando cominciammo a ricevere offerte da Vuitton, Gucci, Hdp… Dovevamo darci una struttura aziendale all’altezza di quanto eravamo cresciuti».

E così avete venduto il marchio, cioè il vostro tesoro, alla «Gado».
D. «Esatto».

Ma perché in Lussemburgo?
G. «Scusi, ma noi siamo un marchio mondiale. Non è che possiamo aprire in Cina o in Brasile appoggiandoci, faccio per dire, alla Cassa Rurale di Rogoredo. Una azienda che opera a livello internazionale ha delle società internazionali. Ovvio. Mica era una operazione illegale! Era tutto trasparente».

Niente scatole cinesi?
G. «Macché scatole cinesi! Ecco qua la nostra “Annual Revue 2004-2005”. Pagina 27: c’è tutto, sulla nascita della “Dolce & Gabbana Luxembourg S.a.r.l. cui fanno capo la neonata Gado S.a.r.l., titolare dei due marchi, e la Dolce & Gabbana Srl, realtà operativa che integra le realtà produttive…” Non abbiamo mica fatto le cose di notte! Tutto alla luce del sole». 
D. «Tanto è vero che né la guardia di finanza né i magistrati ce l’hanno mai contestato».

Dicono però che 360 milioni per quel marchio celeberrimo nel mondo erano pochi.
G. «Ma cosa vuole che ne sapessimo, noi! Avevamo cominciato girando per la pianura padana come consulenti delle aziende di abbigliamento e battendo gli autogrill della Bauli per farci un pandorino o della Fini per mangiarci i tortellini! Ci era scoppiata in mano una cosa più grande di noi. Non eravamo neanche in grado di valutarne il valore. Infatti…».

…Chiedeste una stima a Price Waterhouse Coopers.
D. «Esattamente. Che disse: 360 milioni».

Centottanta a testa: come li avete spesi?
D. «Come vuole che li abbiamo spesi? In azienda. L’azienda è la nostra creatura. La nostra figlia. Tutto va a finire là».
G. «Cosa vuole che ne facciamo dei soldi? Che li mettiamo via per quando saremo morti?»

E qui nasce la grana: la finanza dice che la stima era bassa… Che valeva molto di più e si presume… 
G. «Si presume, si presume… “Si presume che Domenico e Stefano si droghino”. “Si presume che lavorino in ufficio completamente nudi”. Cosa significa, scusi? E poi “chi” lo presume? Noi non ce la siamo fatta in casa: abbiamo chiesto alla Pwc. Loro quante aziende mondiali hanno monitorato per “presumere”? Non si lanciano accuse così su supposizioni».
D. «Tanto più che per l’infedele dichiarazione dei redditi nel penale siamo stati assolti perché “il fatto non sussiste”. Lo stesso giudizio del gup per l’omessa dichiarazione: il fatto non sussiste».

Fatto sta che secondo i magistrati il valore del marchio era oltre il triplo: 1.190 milioni. Una stima poi ribassata a 730 milioni …
G. «Un miliardo! Ma chi l’ha mai visto, un miliardo! È chiaro che, a distanza di anni, dopo che eravamo ulteriormente cresciuti, ci hanno sopravvalutato. Ma noi? Mica potevamo decidere facendoci leggere le carte dalla maga Cloris!».

E se vi confermano la condanna a 400 milioni di multa?
D. «Chiudiamo. Cosa vuole che facciamo? Chiudiamo. Non saremmo in grado di resistere. Impossibile». 
G. «Chi immagina un ricatto morale sui dipendenti sbaglia. Se ci meritassimo la condanna, niente da dire. Ma non la meritiamo. E comunque sì, purtroppo dovremmo chiudere».

Avete messo in conto anche di andarvene?
D. «Si fanno tanti pensieri…»
G. «Ma li ha visti i titoloni sui giornali?».

Voi stessi, decidendo di chiudere i negozi per tre giorni, avete forse amplificato quella battuta polemica… 
D. «Amen. Ma non potevamo tacere. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo mesi e mesi di sgocciolio…».
G. «Vedesse certi blog… “Boicottiamo Dolce & Gabbana, non compriamo più i loro prodotti!” Per carità, moltissimi sono anche da parte nostra, però…».
D. «Io, meno male, i blog non li guardo proprio. Occhio non vede, cuore non duole».
G. «Per quanto te ne freghi, sono cose che ti feriscono se sei uno che ha sempre pagato le tasse. Così, quando quell’assessore ha detto che non avrebbe concesso spazi “a degli evasori” mi è venuto di getto di twittare: fate schifo. Chi se l’immaginava che venisse fuori tutto quel casino?».

Pentito?
G. «No». 
D. «Magari io non avrei scritto “fate schifo” scegliendo parole diverse. Ognuno ha il suo temperamento. Ma sulla decisione di chiudere per indignazione, pagando regolarmente i dipendenti, sia chiaro, siamo stati d’accordissimo. Non ne potevamo più».
G. «Sono andato due giorni al mare e stavo così male che mi sono ustionato anche con la protezione 50! Ci chiamavano dall’America: “Ma fate lo stesso la sfilata o è annullata perché andate in prigione?” E noi a spiegare, spiegare, spiegare… Io domando: chi ti sbatte sulle prime pagine con accuse come queste smentite dalle sentenze penali ha idea del danno che fa?».

Se avete violato la legge…
G. «Ripeto: dall’accusa di infedele dichiarazione dei redditi, per quella contestazione tributaria sul reale valore del marchio, siamo stati assolti, nel penale. E questo addirittura “dopo” che il reato era stato prescritto. Più di così!».

E adesso, col Comune di Milano? 
G. «Ma mica ce l’abbiamo col Comune di Milano. Ce la siamo presa con l’assessore. Chi mai gli aveva chiesto qualcosa? Che motivo aveva per tirarci in ballo?».
D. «Il fatto è che non abbiamo mai avvertito intorno l’orgoglio delle istituzioni per quello che rappresenta Dolce & Gabbana nel mondo. Come se la moda fosse una cosa secondaria. Sentiamo l’orgoglio dei milanesi e degli italiani, sì. Ma mai abbiamo avvertito questo orgoglio delle istituzioni. Mai».
G. «Una donna mi ha fermato per strada: “Non ho mai comprato un vostro vestito e non mi piace il vostro stile ma sono con voi”. Sia chiaro, non siamo Giovanna d’Arco. E non vogliamo proporci come paladini di una rivolta contro il fisco. Per carità! Ma viviamo questa storia come una ingiustizia».

Che Giuliano Pisapia abbia liquidato la battuta del suo assessore come infelice e abbia ricordato che lui è sempre stato un garantista ha chiuso la ferita?
D. «Mai stati in guerra con lui».

Quindi lo incontrerete?
D. «Al mio paese si dice: ogni fuoco cenere diventa». 

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