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Non c’è più

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Adesso Sante Moretti potrà spiegare la sua versione direttamente a Francesco

“Sante Moretti se n’è andato. Lo ha fatto in punta di piedi, da autentico combattente quale è sempre stato per l’intera sua vita”. Così un lungo articolo apparso su Liberazione on line ricorda la figura dello storico militante comunista scomparso in queste ore.
La parola “Cecchin”, in tutto l’articolo, compare una sola volta, nel finale, quando si riporta un lungo stralcio autobiografico scritto di suo pugno dallo stesso Moretti: “Nel 1979 si conclude la mia attività nella sezione, obbligato a trasferirmi perchè perseguitato dai Nar che volevano la mia morte, a seguito dei fatti di Cecchin. Persecuzione che è continuata per diversi anni anche con il ritorno nel quartiere e l’impegno in Rifondazione Comunista. Anche su questo fatto conservo ampia documentazione che testimonia la mia estraneità a quell’episodio”.
I “fatti di Cecchin”. Quasi fosse il nome di un paesello veneto e non il cognome di un ragazzo di diciassette anni morto senza giustizia. Eppure per chi ha vissuto la tragica morte di Francesco e per chi, in seguito, ha studiato il caso, Sante Moretti è sempre stato indissolubilmente legato a quel nome.
Innanzitutto i fatti.
Il 27 maggio 1979, in piazza Vescovio, a Roma, scoppia una rissa. Siamo in campagna elettorale, di quei tempi scazzottate del genere sono all’ordine del giorno. Si discute di manifesti coperti o strappati, a seconda delle versioni. Da una parte ci sono quattro militanti del Fronte della gioventù. Dall’altra una squadra di militanti del Pci, una ventina in tutto. A un certo punto, uno dei rossi si rivolge così a un avversario:
«Tu stai attento. Perché se poi mi incazzo ti potresti fare male. Vi abbiamo fatto chiudere la sezione di via Migiurtina, vi faremo chiudere anche quella di via Somalia».
A parlare è Sante Moretti, 46 anni, ex pugile. L’altro è Francesco Cecchin, 17 anni, militante del Fdg ma anche molto legato ai militanti di Terza Posizione.
La sera seguente, verso mezzanotte, Francesco sta passeggiando nella stessa zona con la sorella, quando una Fiat 850 lo affianca. Dentro ci sono quattro persone. Una voce grida: “E’ lui, prendetelo”. Scendono due uomini. Francesco scappa e presto semina la sorella. Quando ella lo raggiunge, trova il fratello a terra, sotto a un muretto del dislivello di 4,30 metri. Nella mano destra ha un pacchetto di sigarette, nella sinistra un mazzo di chiavi, una delle quali sporge dalla mano, come se fosse stata usata a mo’ di tirapugni, ed è piegata. Apparentemente, benché sia giovane e atletico e l’altezza non sia poi così proibitiva, il ragazzo non ha cercato di atterrare sulle gambe o di attutire la caduta con le braccia. Non si è riparato, è caduto a peso morto. Dopo diciassette giorni di coma, muore.
Le indagini sono da subito lacunose, trascurate. Si opta immediatamente per la caduta accidentale. Dopo anni, la Sentenza della Corte d’Assise di Roma spiegherà:
«Veramente grave e singolare appare pertanto che i periti non abbiano approfondito l’indagine, non si siano recati sul terrazzo dell’abitazione degli Ottaviani, ma semplicemente si siano limitati a dare un’occhiata dall’alto del ballatoio; e abbiano dato una “scorsa” altrettanto superficiale ai rilievi effettuati dalla polizia scientifica, come dichiarato dal professor Umani Ronchi all’udienza del 20 dicembre 1980. Altrettanto singolare che non abbiano tenuto in alcun conto i referti dell’ospedale San Giovanni».
In questa sciatteria investigativa, nel mirino degli agenti finiscono Stefano Marozza, che ha una Fiat 850 e il cui alibi non regge, e lo stesso Moretti. Entrambi verranno alla fine assolti per non aver commesso il fatto, anche se dopo anni di depistaggi a proposito della “caduta accidentale” di Francesco, la stessa Corte d’Assise scriverà:
«E’ convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario».
Sante Moretti, in realtà, espresse una sua versione alternativa circa la morte del ragazzo:
«Riguardo all’assassinio di Cecchin [pensai] a una faida interna ai gruppi neri. Nel quartiere c’è il Crqt, Il Comitato rivoluzionario quartiere Trieste, e Terza Posizione, gruppi dove si pratica una ferrea disciplina, con punizioni e vendette esemplari» (L’Unità, 12 giugno 1980).
A Luca Telese, in Cuori Neri, racconterà tempo dopo di aver vissuto, per due anni, “scortato dai compagni del sindacato, o addirittura dalla stessa polizia”.
Anni dopo, la richiesta della famiglia Cecchin di riconoscere Francesco come vittima del terrorismo è stata bocciata. Il 16 giugno 2011 è stato intitolato un giardino pubblico in suo nome a piazza Vescovio, con l’ambigua e pilatesca formula di “Vittima della violenza politica”. Ciononostante, Anpi e del Partito Democratico hanno protestato vivacemente.

“Che molti giovani possano diventare comunisti come te”, ha scritto in queste ore, commosso, Paolo Ferrero. 

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