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Non lasciarti tagliare le palle!

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Ce la potrai mai fare?

La grande battaglia contro i maschi è ufficialmente iniziata. Ma in sordina è in corso da anni. Già quarant’anni fa autorevoli psichiatri esortavano gli uomini a rassegnarsi, collocato il futuro professionale maschile tra lo sguattero e lo stradino. Ora però la campagna si fa martellante e aggressiva. Associazioni di psicologi, campagne pubblicitarie dei prodotti più svariati, opinionisti assortiti diffondono un messaggio preciso: il maschio deve cambiare, e in fretta. Per lui com’è oggi non c’è posto, fin da quando, piccolo, gioca alla lotta su un prato. Mostrando i relativi filmini, foto, e lo slogan: la smetta di lottare. Non sta bene, e disturba.
Cosa dovrebbe fare, allora, il piccolo maschio che (come da filmino deplorante) ruzza con l’amico a terra per socializzare con i coetanei? Sedersi su una panchina e conversare del più e del meno con l’amichetto di tre anni? Le pubblicità dei cosmetici perbene, le linee guida psy eccetera non spiegano. È chiaro comunque che tanto per cominciare, secondo loro, non deve toccare l’altro. Cos’è, infatti, questa idea di rotolarsi sul prato, come bestie? Quelli sono gli orrendi maschi di una volta, i figli del funesto patriarcato: ora basta!
È solo un aspetto dell’intera questione, ma importante (come sempre i dettagli) per capire dove si vuole arrivare. Per il politicamente corretto (che non è un superficiale birignao ma la vera filosofia e metodo di governo degli ultimi decenni) far fuori il maschio doc serve all’obiettivo finale: separare le persone l’una dall’altra e tutte dalla terra. Per renderle più deboli, infelici, docili e sostituibili. Nel breve termine con gli immigrati e, più a medio termine, con i computer.
Questo programma non è realizzabile se i maschi rimangono fedeli al loro modo di essere da millenni: vicini all’energia e forza della terra che hanno conquistato dal dominio degli animali, e difensori delle donne e dei piccoli, dunque legati alla forza più che al lamento. È per difendere i deboli e la propria terra che i maschi hanno lottato e si sono fatti ammazzare per millenni.
Come mai si scatena però proprio tutto adesso: ogni giorno parte una nuova battaglia? Intanto butto lì un’impressione: le richieste di cambiare la loro natura si fanno più numerose e imperative man mano che si scopre che gli uomini non hanno poi tutta questa fretta di farlo. E stanno anzi scoprendo buone ragioni per continuare sulle antiche piste, che nel frattempo guadagnano anzi nuovi fan. Come (tanto per dirne una, però significativa) Serghei Polunin, protagonista della danza nel mondo, star dell’Opera di Parigi, che lancia da Instagram il suo appello ai maschi: «Non siate effemminati. Siate uomini, lupi e leoni». Un invito piuttosto insolito e politicamente scorrettissimo per un ballerino, che di solito ha tutt’altra immagine. Infatti la direttrice del corpo di ballo si è seccata, e l’Opera ha subito fulminato Polunin: non parteciperà più al Lago dei cigni di Tchaikovsky in cartellone da febbraio. I suoi valori, dice la direttrice, sono incompatibili con quelli della direzione.
Serghei infatti, che a diciannove anni è stato il più giovane primo ballerino del Royal Ballet di Londra, e poi anche il primo ad andarsene per sua volontà, aveva accompagnato il suo appello agli uomini con precise motivazioni: «Smettetela di essere deboli, siate guerrieri. Ci sono già le donne a fare le ballerine, siate maschi. Siete i leaders della famiglia. Dovete occuparvi di tutto. È per questo che avete le palle». Un ragazzo che ha idee chiare, e che per peggiorare la sua situazione, da vero provocatore, si è fatto anche tatuare sul petto il viso di Vladimir Putin di cui è appassionato seguace. Sono tipi così che danno sui nervi ai poteri forti, quelli che hanno guidato il mondo occidentale negli ultimi trent’anni.
Hanno ragione di temere. Perché se i maschi si accorgono che l’identità maschile non è brutta e da stupidi, come i media e gli insegnanti ripetono fin dagli anni Settanta, ma che «essere uomini, lupi e leoni» può essere molto più divertente e fruttuoso che strascinarsi dietro le mode del momento, oltre che più autenticamente sociale, per il terrorismo politico-pubblicitario è finita.
Quindi la grande macchina mediatica tagliapalle reagisce, compatta. Uno dei modi, da tempo collaudati, è «patologizzare» il maschio che riesce a vivere a suo modo, senza chiedere e lasciarsi condizionare dalla società, e magari ha anche successo. Allora dicono che è un pazzo e cercano di convincere i suoi seguaci a cambiare al più presto. È quello che in America fanno buona parte dei democratici dalla discesa in campo di Donald Trump in poi, e in Inghilterra gli oppositori della Brexit e del suo responsabile conservatore, Boris Johnson, tutt’ora il politico più popolare nel suo Paese. Così la macchina antimaschio ha schierato dalla sua parte, da qualche settimana, un nuovo documento, curioso e grave: le Linee guida dell’American psychological association per la pratica terapeutica con uomini e bambini.
Di «linee guida per maschi» l’Apa non ne aveva mai avute, in centoventisei anni di storia. C’era una ragione: fin da quando è nata si è sempre pensato che il paziente va accettato in quanto persona e curato senza pregiudizi. È uno dei principi base della relazione terapeutica: fuori da lì si entra nel campo delle psicologie autoritarie o suggestive, che non vogliono curare, ma cambiare le persone a seconda del potere del momento. Tuttavia è ciò che si propongono queste «linee guida»: non curare i maschi, ma cambiarli. E non per il disturbo o problema personale che li portano dallo psicologo, ma per un obiettivo che più che con il mestiere di psicologo ha a che fare con quello del profeta, o del visionario con disturbo di «narcisismo grandioso»: cambiare il mondo.
Roba pesante; ma è ciò che il manuale propone: «Se possiamo cambiare gli uomini», scrive uno dei suoi autori, «possiamo cambiare il mondo». Lo pensava anche Heinrich Himmler e altri con lui, ed è ciò che preoccupa. Usare la copertura delle «professioni di cura» per scopi di potere «mondiale» è sleale e pericoloso. Ma è ciò che le linee guida dell’Apa rischiano di fare, soprattutto nell’uso «prescrittivo» che ne hanno fatto i grandi giornali italiani, a dire il vero al di là delle ovvie cautele introdotte dall’Apa stessa. Che dice fin dalla prima pagina che le linee guida hanno solo un’intenzione «informativa», non sono «requisiti che membri dell’Associazione sono tenuti a seguire», e non hanno «la precedenza sul giudizio informato del professionista», (ovvie cautele in democrazia, da esportare forse anche negli ordini e nelle associazioni europee). Sono comunque una spinta potente per influenzare i comportamenti, diffusa da un esercito di centodiciassettemilacinquecento membri, e appoggiato con il bilancio di 115 milioni di dollari dell’Apa. Un gruppo di pressione che pesa sull’opinione pubblica mondiale. E danni può farne, eccome.
Ad esempio l’attacco fatto all’aspetto «stoico» dell’educazione maschile tradizionale e ai suoi effetti sulla formazione del carattere contraddice (oltre che l’esperienza clinica e delle grandi scuole maschili, dove è nato gran parte del sapere degli ultimi secoli), anche alcuni orientamenti psicologici recenti, come il molto seguito psicologo danese Svend Brinkmann (il suo Contro il Self Help, Cortina editore, è già stato presentato dallo Sguardo Selvatico), che propone proprio la psicologia stoica come necessario antidoto al «debolismo» dell’Occidente contemporaneo, e a i suoi vistosi problemi psichici.
È il confronto con la realtà per come è, e con i confini che essa ci impone, a rafforzarci davvero. Nella spinta dell’Apa a «parlare» e verbalizzare ogni vissuto ed emozione c’è inoltre, la scarsa conoscenza della psicologia maschile che di suo è, da millenni, anche introversa e poco verbale. Ciò non deriva da un’assenza di vocabolario e da sospetta bestialità ma, anche, dalla filogenesi umana. Per millenni il maschio rimase spesso solo a cacciare, coltivare e guerreggiare e la sua comunicazione autentica è più simbolica, fatta di gesti che di parole. La psicoterapia non può cambiare l’evoluzione, casomai arricchirla. Ma occorre conoscerla. Un aspetto che non sembra considerato in queste discussioni superficiali, che riducono il linguaggio maschile a condizionamenti da film western (comunque ben più ricchi della riduzione fattane dalle «linee guida»).
Va anche detto che gli psicologi maschi (comunque in minoranza nelle Associazioni) non si sono dati un gran daffare per comunicarlo. Hanno fatto di più e meglio gli scrittori, i grandi narratori del silenzio maschile, dal superintroverso Joseph Conrad a Robert Louis Stevenson e tanti altri (perché l’Apa non li mette in bibliografia, al posto di tutti i mediocri studi di signori e signore che non hanno mai fatto una traversata tra le onde di un mare arrabbiato o nel silenzio di montagne improvvisamente trasformate in un mare di neve e ghiaccio?). Non esiste psicologia maschile senza storia del maschile e poesia del maschile. Il resto è chiacchera, o bassa politica.

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