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Non sono tutti come Saviano

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Trent’anni fa a Catania Giuseppe Fava

Il 5 gennaio 1984 veniva ucciso a Catania Giuseppe Fava.
5 colpi di pistola, una 7.65 puntata alla testa, così da vicino che l’assassino si sarà macchiato del suo cervello.
5 proiettili in testa a chi raccontava, come prima nessuno, l’intreccio imprenditoriale – mafioso a Catania.
Milano del sud ai non catanesi dirà poco, come poco dirà il nome di Fava.
Catania era – e in parte continua ad essere – solo apparentemente lontana dalla mafia. Oggi come allora si dice che Cosa Nostra è perlopiù roba della Sicilia occidentale, che sullo Ionio si fatica in maniera pulita.
Chi erano, allora, i Santapaola e i “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, come Fava definiva nel primo numero de”I Siciliani” gli imprenditori cittadini che facevano affari miliardari grazie alle cosche?
L’uomo era un giornalista, un regista e uno scrittore che si potrebbe collocare a sinistra. Un socialista anti-marxista, lontano dai partiti che guardava con sospetto. Ancora più lontano dai sindacati che non l’amavano, attenti com’erano a salvaguardare le “supreme” ragioni dell’occupazione, anche se a garantire quella occupazione erano i potentati mafiosi…
Giuseppe Fava era un uomo libero. Uno che aveva infilato nella redazione del “Giornale del Sud”, da lui diretto, un giornalista dichiaratamente di “estrema destra”, come scrivono oggi i suoi biografi.
Impensabile oggi, figuriamoci nel 1980.
Innamorato della Sicilia e di Catania, che sentiva sua nonostante provenisse dal siracusano. E di questo legame atavico alla terra scriveva, raccontando i soprusi subiti e la povertà delle genti.
Non lo faceva col trito piagnisteo che conosciamo, quello di chi mendica il posto di lavoro nel nome di una non meglio identificata “giustizia” sociale, ma scriveva per sbattere in faccia ai catanesi e così agli italiani, la realtà di una città pietrificata negli equilibri decisi dalle cosche.
Le cosche che facevano affari con gli americani a Comiso (i terreni da vendersi a prezzi esorbitanti per l’installazione degli impianti missilistici, erano per buona parte in mano alle famiglie).
Per la scelta di riferire i retroscena dell’affaire, quelle cosche ne sentenziarono prima la cacciata dal quotidiano che dirigeva (formalmente per l’essersi distanziato dalla linea filo-atlantica dell’editore) e poi l’eliminazione.
Giuseppe Fava non temeva la morte e, pur intravedendone l’ombra, ci scherzava.
Andò consapevolmente incontro al suo destino quella notte di gennaio.
All’indomani dell’assassinio l’informazione cittadina – ancora oggi nelle mani dei personaggi d’allora – iniziò, spalleggiata dalla Procura e dagli stessi sbirri, una sistematica opera di depistaggio, suggerendo strade alternative come quella passionale, insinuando dubbi e diffondendo ad arte maldicenze.
Oggi che conosciamo chi lo uccise e perché fu ucciso, gli si renda il tributo dovuto a chi scelse di andare incontro alla morte per un’idea, col sorriso sulle labbra e il Sole in fronte.

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