Quasi tutti steccano di brutto durante l’invasione dell’Ucraìna
Nihil sub sole novum. Il cosiddetto mondo della destra (termine che a molti, ivi compreso chi scrive, fa rabbrividire), nella sua accezione più ampia e convenzionale del termine, innanzi alle crisi internazionali (ma da qualche tempo anche innanzi alle prove elettorali) è portato inevitabilmente a sfarinarsi. Accadde per i conflitti in Vietnam, Iran-Iraq, Golfo, Serbia-Kosovo, Afghanistan (prima con i sovietici, poi con gli statunitensi). Ci si accapigliò perfino, me lo ha riferito Tarchi di recente strappandomi un sorriso, tra i sostenitori dell’India e del Pakistan ai tempi in cui l’animatore della “Nuova Destra” si iscrisse alla Giovane Italia. Succede dal 1948 in Medio Oriente. Quanto sta avvenendo in queste ore è in perfetta continuità con il tormentato passato. Al netto degli stravaganti commenti strappalacrime che spuntano qui e là (alludo, in particolare, all’abulimia twittarola che ha colto uno spaccato eterogeneo filorusso – a riprova che la policramia si trova anche a quelle latitudini – che va da Fusaro ai seguaci di Dugin), per il parlamento aggirato a causa della decretazione d’urgenza (cosa c’è di più necessario e urgente di una guerra in terra europea?) e per la violazione dell’articolo 11 della Carta – tesi che sarebbero oggetto di scherno perfino alla Leopolda – trovo surreale che, in un mondo multipolare, si sia rimasti prigionieri della logica (bipolare) di Yalta, rivisitata dopo 44 anni a Malta. Ci si può sentire europei senza contemporaneamente cedere alle sirene occidentali e alla seduzione che esercita l’immancabile papa straniero che incarna, in Russia come altrove (c’è chi vede perfino nella teocrazia iraniana, da Khamenei a Raisi, un modello a cui ispirarsi), la nostra frustrata volontà di potenza? Dopo quasi otto decenni è lecito affermare che Europa e Nato non siano sinonimi? Si può caldeggiare un protagonismo europeo che ritrovi un’intesa con Mosca, riconoscendo gli sforzi diplomatici compiuti da Macron e, in misura minore, da Sholz che hanno ostacolato fino all’ultimo l’imbarbarimento delle relazioni internazionali malgrado Regno Unito (c’è chi ancora tesse le lodi, in chiave anti Ue, per la Brexit, malgrado la politica estera di Londra abbia sempre ritenuto il Mediterraneo una piscina del suo resort coloniale trovando l’ostilità di parte della classe dirigente italiana da Crispi a – in qualche misura – Berlusconi passando per LVI, Mattei e Craxi) e Stati Uniti (in tal caso evito incisi prolungati per brevità) lastricassero di provocazioni la vigilia del conflitto? E’ consentito insinuare, ora come allora, una qualche complicità tra Usa ed ex Urss visto che a guerra in corso le maggiori banche di Wall Street, stando a quanto riferito dall’agenzia Bloomberg, avrebbero sconsigliato Washington di estromettere Mosca dallo Swift dal quale, infatti, non è uscita? E’ legittimo simpatizzare per quei volontari europei che a Mariupol come a Kharkiv si battono disperatamente per la loro terra e, ad un tempo, respingere chi, catechizzato dalla propaganda sovietica che vede camicie brune ovunque, vorrebbe denazificare l’Ucraina ricorrendo all’immancabile “reductio ad hitlerum”, senza per questo raggiungere le sponde dell’Atlantico o contaminarsi con palazzo Chigi e Farnesina che hanno dimostrato sciatteria e irrilevanza in materia di politica estera?
Da figlio dell’Europa dei vinti, non ho una visione manichea della storia, figuriamoci della politica e della geopolitica, pertanto riconosco le diverse “ragioni del torto” e lo sbilanciamento – a tratti caricaturale (domenica scorsa Giletti ha messo, l’un contro l’altra, il giovane ucraino collegato dalla capitale, sotto l’imminente attacco, che si esprimeva in modo forbito visto che si era formato nelle nostre scuole, e la ragazza russa in studio che, anche per il suo italiano claudicante, è stata messa all’angolo dagli altri ospiti) e disgustoso (“Repubblica” ha rilanciato uno studio della Columbia University sui cosiddetti “Putinversteher” tra i quali si annovera perfino Carlo Terracciano, “andato oltre” ventidue anni or sono) – di taluni media a favore di Kiev. Ma è altrettanto doveroso evidenziare il bizzarro atteggiamento di quanti hanno dapprima accolto l’invasione russa con una scrosciante “standing ovation”, salvo poi, a distanza di qualche giorno, consegnarsi all’isteria quando la Ue, naufragati i tentativi diplomatici tesi a scongiurare il conflitto, ha deciso di fornire armi a una consorella. Si preferiva forse, come a Budapest nel ’56 e a Praga nel ’68, che il mondo rimanesse a guardare “sull’orlo della fossa seduto”, innanzi alla medesima vocazione imperialista che registriamo in queste ore? In proposito, trovo incoraggiante quanto dichiarato, lo scorso 28 febbraio ai microfoni di radio Europe 1, dal segretario di Stato francese agli Affari Ue, Clément Beaune. Questi, in riferimento alla decisione assunta dalla Ue, ha considerato la fornitura di armi all’Ucraina “una rivoluzione della potenza europea prodottasi dinanzi alla pressione degli eventi”. Poi ha aggiunto: “Abbiamo realizzato che la nostra sicurezza richiede che l’Europa non sia semplicemente un simpatico mercato economico ma che deve diventare un’unione politica, di sicurezza, che la democrazia ha un prezzo. Sono purtroppo le crisi che fanno progredire l’Europa”. Al di là degli accenti retorici, tale posizione dimostra che l’Europa non rappresenta un monolite al guinzaglio di Usa e Nato. Di più: ritengo che i destini di quella e questi, per quanto non possegga virtù profetiche, siano destinati ineluttabilmente a divaricarsi. Pur auspicando un immediato “cessate il fuoco”, è proprio sul ciglio dell’abisso che si notano i primi, timidi cenni di risveglio.