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Pacifico un cavolo!

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La partita si gioca su tutti i fronti del mare

L’Oceano Pacifico è l’epicentro della grande partita geopolitica globale, è la massa d’acqua che copre da sola un terzo della superficie terrestre e su cui insistono gli Stati con l’economia più vasta del pianeta (Stati Uniti, Cina e Giappone sono ai primi tre posti per Pil), le nazioni a tasso di crescita più alto (dall’Indonesia al Vietnam) e una serie di nazioni, dalla Corea del Sud al Cile, dal Messico all’Australia, ambiziose per gli obiettivi su risorse naturali e commerci.
Il Pacifico è un “miracolo geologico” e naturalistico. Lo si nota guardando gli ecosistemi variegati in superficie (dal reef australiano alle Galapagos) e nei fondali (gli habitat non basati sul carbonio delle fosse oceaniche) ma anche apprezzando l’ampiezza delle sue fonti di materie prime ed energia, contese e desiderate dalle grandi potenze.

Gas e petrolio animano la sfida
Il primo terreno di scontro è quello sulle risorse più contese del presente: gas naturale e petrolio. A Occidente del Pacifico, la Cina è il maggior consumatore al mondo di entrambi. A Oriente, gli Stati Uniti usano a fini strategici il gas naturale, di cui sono i maggiori produttori mondiali, e hanno nell’Alaska, affacciata sul Pacifico, lo scrigno del loro sistema petrolifero.
L’Encyclopedia Britannica ricorda a tal proposito che “le principali aree del Pacifico sud-occidentale per l’esplorazione offshore di petrolio e gas sono nel Mar Cinese Meridionale – le acque al largo del Vietnam e al largo dell’isola di Hainan in Cina e sulla piattaforma continentale a nord-ovest dell’isola di Palawan nelle Filippine”, al centro di un’importante sfida geostrategica.
La “cintura di fuoco” del Pacifico non è solo quella dei vulcani che ha l’epicentro nell’arcipelago indonesiano e nelle Hawaii, ma anche quella umana del confronto tra le potenze laddove le risorse naturali diventano terreno di conflitto. E così diventa terreno “caldo” il Mar Cinese Meridionale per la contesa sulle Isole Spratly, ricchissime di gas e petrolio nel loro offshore, in cui si trovano strutture occupate da forze militari cinesi che si confrontano con quelle di Taiwan, della Malesia, delle Filippine e del Vietnam. Inoltre, anche il Sultanato del Brunei ha rivendicato una zona economica esclusiva nella parte sud-orientale delle isole Spratly, che comprende la disabitata Louisa Reef. Discorso simile per le Isole Paracelso contese tra Cina, Taiwan e Vietnam.
Petrolio e gas si trovano anche al largo delle Isole Curili e di Sakhalin dove il contrasto territoriale è invece tra Russia e Giappone. Le aree più “pescose” per questi preziosi idrocarburi, ricorda la Britannica, “includono anche l’area al largo delle isole Natuna e alcune aree al largo della costa di Sumatra in Indonesia”, cosa che fa di Giacarta un’importante potenza regionale, mentre “nel Pacifico meridionale, la produzione e l’esplorazione di idrocarburi si stanno svolgendo al largo dell’Australia nord-occidentale e settentrionale e nel bacino del Gippsland, al largo dell’Australia sudorientale”.
Sempre più strategiche, nel quadro della contesa globale per la transizione energetica e dell’ascesa del gas naturale a risorsa ponte tra fonti fossili e rinnovabili, diverranno nazioni apparentemente periferiche nell’ordine del Pacifico. Un caso su tutti è quello della Papua Nuova Guinea, nazione in cui ExxonMobil ha costruito un impianto di rigassificazione capace di produrre 8,3 milioni di tonnellate di Gnl l’anno dall’oro blu estratto nel cuore dell’isola degli uccelli del paradiso. L’agenzia di Canberra per gli investimenti esteri, Export Finance Australia, acquisirà per oltre 1,1 miliardi di dollari una partecipazione del 5% nell’impianto, cruciale per costruire una “cintura protettiva” capace di creare una catena del valore occidentale del gas e del petrolio in grado di contenere il dinamismo cinese.

La battaglia per le risorse minerarie
Non solo gas e petrolio, però, animano la partita delle risorse. Manganese, ferro, rame, nichel, titanio e cobalto, così come piccole tracce di altri metalli, si trovano in profondità nelle acque del Pacifico. La Britannica ricorda che “i minerali di solfuro marino, contenenti ferro, rame, cobalto, zinco e tracce di altri elementi metallici, sono depositati in grandi quantità vicino alle sorgenti idrotermali in acque profonde, come quelle che si trovano nel Pacifico al largo delle isole Galapagos e sulle creste Juan de Fuca e Gorda nella depressione di Okinawa e nel bacino di Manus al largo della Nuova Guinea”. Questo dà a Stati come Ecuador, Giappone, Papua Nuova Guinea e Indonesia (che controlla la metà occidentale della Nuova Guinea) un ruolo strategico crescente nella partita delle risorse che serviranno ad alimentare l’industria del futuro.
Strategica sarà sempre di più, in futuro, la Clarion Clipperton Zone (CCZ), la zona di frattura formata dall’accumulazione di più zolle continentali nel fondo dell’oceano, che forma un enorme regione di 4,5 milioni di chilometri quadrati, più grande dell’Europa occidentale, compresa tra le Sporadi Equatoriali, le Hawaii, Kiribati e il Messico, in cui si concentrano importanti risorse di terre rare ritenute decisive per la transizione energetica.
L’International Seabed Autorithy che governa la Ccz ha dato sinora 19 licenze di esplorazione per ricerche minerarie in acque profonde, tra cui la principale è quella della canadese The Metals Company (Tmc) nel piccolo Stato insulare di Nauru. “I  sostenitori dell’estrazione mineraria sostengono che questi metalli sono necessari per produrre batterie per veicoli elettrici e negli alimentatori di potenza che distribuiscono energia rinnovabile”, nota China Dialogue Ocean, ma c’è un grave problema per il rischio ambientale, come dimostrato dal documentario oceanografico del 2022 Blue Peril, realizzato da Interprt, un’agenzia norvegese che si occupa di ricerca ambientale, e Ozeanien Dialog, una Ong tedesca che intende proteggere gli Stati più periferici e insulari dell’Oceania.
La recente scoperta, nel cuore dell’area della Ccz bersagliata dalle compagnie minerarie, di vere e proprie aree-santuario per la fauna abissale in cui potrebbero esistere centinaia di specie animali rare e ignote alla scienza alza l’asticella per la tutela ambientale dell’area.

La “guerra” della pesca e le mosse cinesi
Last but not least, c’è la partita della pesca. Nei suoi 149 milioni di chilometri quadrati, l’Oceano Pacifico mostra la più ampia varietà di biodiversità tra le superfici marittime del pianeta. Le principali zone di pesca sono concentrate nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar del Giappone, oltre al Mar di Celebes nell’arcipelago indonesiano. Altrove, zone del Pacifico sono importanti per singole risorse, come l’area di Macao o, all’estremo opposto dell’oceano, il Nicaragua per l’allevamento delle ostriche da perle e il Mar dei Coralli al largo dell’Australia per il procacciamento dell’analogo animale. In Alaska sono invece importanti le pesche dei salmoni e del pregiato granchio reale, mentre in Perù è concentrata la pesca dell’acciuga del Pacifico, importante a fini commerciali perché alla base della produzione di farine e olii di pesce.
Al di là delle ripercussioni alimentari e di biodiversità della partita della pesca, bisogna ricordare che essa ha anche un fronte geopolitico spesso sottovalutato, legato all’avventurismo della Cina e alla “militarizzazione” dei pescherecci. “Negli ultimi dieci anni la flotta di navi da pesca che battono la bandiera della Cina è cresciuta del 500% nell’oceano Pacifico centrale, il mare più ricco di pesce”, ha fatto notare nel 2021 un’inchiesta del Guardian e di Repubblica. “A farne le spese sono 17 piccoli Paesi del Pacifico centro-occidentale, tra cui Papua Nuova Guinea, Figi, Vanuatu, le isole Salomone e gli stati federati della Micronesia, oltre alla fauna acquifera di quella che è considerata l’area più fertile del Pianeta, che rischia di essere gravemente danneggiata o addirittura nel lungo termine di estinguersi”, ha commentato Repubblica. 290 le navi cinesi ufficialmente registrate, tra 1.600 e 3.400 quelle effettivamente operanti a caccia di acciughe, tonni, salmoni e altri animali, fondamentali per il mercato interno ma anche per il delicato sistema produttivo di molti contesti regionali a cui sfavore la Cina rischia di manipolare il mercato.
E non finisce qui. L’industria della pesca cinese, forte di 20 milioni di uomini e circa 500mila imbarcazioni, diventa la base per una proiezione strategica, essendo spesso pescherecci armati i primi “colonizzatori” mandati da Pechino negli atolli contesi con i Paesi confinanti e la pesca stessa la scusa per tentare di occupare aree contese. I diritti di pesca, hanno ricordato su queste colonne Lorenzo Vita e Paolo Mauri, sono spesso i primi contesi tra i diritti del mare tra le potenze e creare situazioni di fatto con la flotta illegale di pescherecci può contribuire alla strategia cinese di condizionare a favore di Pechino la grande sfida per le risorse che su ogni angolo del Pacifico si è aperta a tutto campo. Unendo analisi geopolitiche, sfide economiche e partite ambientali in un contesto unico e complesso.

Andrea Muratore

 

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