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L’elemosina del G8, quand’anche si realizzasse davvero, non servirebbe per nulla all’Africa

     Cinque euro e 18 centesimi l’anno. Cioè 43 centesimi al mese. E’ questa la cifra stanziata (che non significa che ariverà mai) per ogni africano dal G8 dell’Aquila. La somma degli aiuti complessivi ai Paesi poveri arriva appena appena allo 0,13% dei soldi stanziati in questi mesi per arginare la crisi nei Paesi ricchi.

Si dirà: l’aiuto massiccio alle banche, alle imprese, all’economia occidentale era prioritario per contenere l’onda di piena e rimettere in moto quei meccanismi che, passata la grande crisi, consentiranno di redistribuire ricchezza. Difficile negarlo: un tracollo del mondo più forte non aiuterebbe certo quello più fragile. Di più: lo stesso Obama ha spiegato ad Accra che “il futuro dell’Africa dipende dagli africani” e che “se è vero che l’Occidente ha avuto spesso un approccio da padrone non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbabwe, delle guerre coi bambini-soldati, della corruzione o del tribalismo che pesarono anche sulla vita di mio padre”. Insomma: a ciascuno le proprie responsabilità. Colpisce tuttavia lo squilibrio tra i due investimenti, quelli per noi e quelli per loro.

La Banca Mondiale, ha scritto Iacopo Viciani su lavoce.info, aveva chiesto mesi fa “ai Paesi industrializzati di destinare lo 0,70% delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare di base nei 43 Paesi in via di sviluppo più esposti alla crisi”. Non per carità cristiana: perché siamo dentro un sistema globale dove tutto si tiene e dunque tutti insieme si affonda, ricchi e poveri, e tutti insieme si resta a galla. Due conti? Stando a un rapporto della Bank of England, Financial Stability Review, gli Usa, i Paesi dell’area euro e la Gran Bretagna hanno investito in aiuti vari contro la crisi (comprese le garanzie) 14.800 miliardi di dollari. Una somma stratosferica. In rapporto alla quale, se i Paesi ricchi avessero accolto l’invito a versare lo “0,70% delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi”, avrebbero dovuto mettere insieme 103,6 miliardi di dollari. Cinque volte più di quei 20 miliardi decisi a L’Aquila (i più tirchi siamo noi, che tagliamo e tagliamo dal 1993) pari appunto allo 0,13%. Insomma, ogni mille euro andati ai ricchi ne andranno ai poveri 13. Per carità, può darsi che le due tabelle non siano perfettamente confrontabili. Ma certo fa effetto mettere a confronto i toni dell’annuncio per quei “venti miliardi di dollari in tre anni!” con i grandi numeri. Non solo quei venti miliardi (pari a circa 14,4 miliardi di euro) sono pari a un trentunesimo di quanto persero le sole Borse europee nella sola giornata nera del 21 gennaio scorso.

Ma in rapporto ai 920 milioni di abitanti del continente nero, ammesso che quei soldi siano reali e arrivino solo lì, significano 21,7 dollari per ogni africano in tre anni. Cioè, come dicevamo, 5 euro e 18 cent l’anno a persona. Cosa ci viene ripetuto da sempre: che bisogna smettere di regalare ai miserabili un pesce perché è meglio dargli una canna e insegnar loro a pescare? Bene: con quei soldi un africano può comprare, una volta l’anno, si e no un amo e due metri di filo. La canna e i vermi deve procurarseli da sé. Dopodiché, s’intende, gli resterà il problema dell’acqua. Immaginiamo l’obiezione: la via d’uscita non può essere la carità. Vero. Come ricorda la stessa voce.info c’è chi, quale Adrian Wood, professore di economia a Oxford, ha sostenuto sul Financial Times che poiché in molti Paesi “gli aiuti costituiscono più del 10% del prodotto nazionale e quasi metà del bilancio pubblico” e poiché questa dipendenza “è causa di una serie di gravi problemi, dovuti soprattutto al fatto che i governi devono rendere conto principalmente ai Paesi donatori invece che ai propri cittadini”, bisognerebbe “limitare i flussi degli aiuti a ciascun Paese al 50% delle tasse che il governo è in grado di raccogliere a livello domestico”. Giusto? Sbagliato? Il dibattito è aperto. Certo è che, come gli stessi grandi hanno riconosciuto al G8, la rimonta dei Paesi poveri non può cominciare senza nuove regole del commercio mondiale. “I dazi imposti dai Paesi industrializzati su alimenti base quali carne, zucchero e latticini sono circa cinque volte superiori ai dazi imposti sui manufatti. Le tariffe doganali dell’Ue sui prodotti della carne raggiungono punte pari all’826” accusava nel 2001 Kofi Annan. Tre anni fa, lo United Nations Development Programme confermava: “Le tariffe commerciali più alte del mondo sono erette contro alcuni dei Paesi più poveri. In media le barriere commerciali per i Paesi in via di sviluppo che vogliono esportare verso i Paesi ricchi sono da tre a quattro volte più alte di quelle in vigore tra i Paesi ricchi”. Per non dire degli aiuti agli agricoltori: un miliardo al giorno in sussidi per prodotti coi quali, a quel punto, i contadini dei Paesi in via di sviluppo non possono sognarsi di competere. Nel 2006 la Oxfam (una grossa ong britannica) ha fatto una stima: se Africa, Asia e America Latina aumentassero la loro quota del commercio mondiale dell’1% (l’uno per cento!) uscirebbero dalla povertà 128 milioni di persone.

Eppure, spiega Paolo de Renzio, dell’Università di Oxford, le cose sono addirittura peggiorate: “Nel 2009, l’Overseas Development Institute di Londra ha accertato che il valore del commercio per i Paesi in via di sviluppo sta scendendo. In Indonesia, le esportazioni di prodotti elettronici, 15% del totale, sono calate in un anno del 25%. Nel settore tessile in Cambogia, il valore delle esportazioni è sceso da 250 milioni di dollari al mese a 100 milioni. Il prezzo di materie prime come rame e petrolio è calato drasticamente, con effetti devastanti, in Nigeria, Zambia, Bolivia”. Conclusione: “Quei venti miliardi, di cui solo una parte dovuti a nuove iniziative, sono in realtà una semplice pezza per i problemi, aggravati, che tanti Paesi devono affrontare a causa di una crisi globale di cui non sono affatto responsabili”.

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