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Parigi quarant’anni fa

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E oggi voi o io

 

Quarant’anni fa, poco prima delle luci dell’alba, raggiungevo Parigi in treno, sbarcando alla Gare de Lyon. Provenivo da Briançon, sulle Alpi, dove ero approdato alla vigilia, il 23 novembre, dopo aver valicato la montagna clandestinamente durante il terremoto del Sarno.
Dei latitanti riusciti a sfuggire alla cattura ero l’ultimo a passare la frontiera, avevo voluto così.
Il nostro progetto era di organizzarci per vivere oltre confine (Francia o Inghilterra) allo scopo di sovvenzionare la ripresa delle attività. Sarei tornato più volte in Italia da clandestino fino a quando, nell’ottobre del 1982, non avrei deciso di sciogliere Terza Posizione essendomi reso conto che i pochi, giovanissimi, irriducibili che si dedicavano alla fedeltà sarebbero andati incontro allo sbaraglio per nulla.
Intanto muovevo i primi passi in quella Parigi che mi sarebbe entrata nel sangue, nelle ossa e nell’anima.

Non, rien de rien
Quell’Odissea era uno dei premi del nostro gioco giovanile, del nostro sogno indomito e un po’ guascone. Un gioco che ci avrebbe fruttato reclusione, sangue, morte, e infinite peripezie, concedendoci però di vivere davvero e di maturare da eterni innocenti, non dopo essere lentamente avvizziti com’è regola in un mondo che non conosce i fiori di ciliegio. Sicché non ho nulla da rimpiangere e non serbo rancore verso i repressori, neppure quelli che hanno costruito piste false  contro di me per la strage di Bologna o che hanno preparato il terreno perché fossi ucciso, come mi spiegarono i gendarmi austriaci al mio arresto nel 1992.
Come ebbe a dire, a quanto racconta Evola,  Archimede al soldato romano che lo stava per trafiggere: “non m’inganni, anche tu sei Dio!”
Tutto quel che non mi uccide mi rende più forte. Gliene sono dunque grato.
O, per restare in tema: Non, rien de rien, je ne regrette rien…

Quell’Italia lì
Che società mi lasciavo indietro? Quella della complicità Dc-Pci, dei tribunali speciali di fatto, anche se mai denominati così, quella del potere parlamentare e della partitocrazia.
Un’Italia in cui lo Stato giocava il gioco delle tre carte su più tavoli, occhieggiando a inglesi, russi e americani, ad arabi e a israeliani. Un’Italia con un enorme stato sociale già tradotto in parassitismo massificato. Un’Italia in cui era ancora piena e totale la sovranità monetaria, molto più che quasi ovunque altrove e che, a sentire certuni, avrebbe quindi dovuto essere sovrana.
Un’Italia in cui la piccola borghesia prosperava senza intralci e problemi e in cui iniziava a manifestarsi l’orgoglio bottegaio.
Un’Italia che mi faceva ribrezzo.

O io o voi
Da qualche annetto in qua leggo il sogno che le estreme destre, alla ruota di populisti eterodiretti, hanno cristallizzato nel sovranismo antieuropeo.
La loro età dell’oro è stranamente così vicina a quell’Italia che mi faceva ribrezzo allora. Un’Italia bottegaia il cui Stato, giocando alle tre carte, faceva il cialtrone ovunque. E questa sua “virtù” oggi la rivendicano in opposizione al fare sistema in Europa. Un’Italia il cui stato sociale era vacche grasse per i parassiti e nella quale l’orgoglio bottegaio e il trionfo dell’individualismo fungevano da cultura dominante. Che sono le pretese rispettivamente sociale e culturale di molti sovranisti.
Un’Italia consociativa, parlamentarista, che fondava il malaffare diffuso e coinvolgente sulla proporzionale e sul voto di preferenza, garanzia massima di ogni clientelismo e oggi cavallo di battaglia degli eredi presunti dell’antiparlamentarismo e dell’antipartitocrazia.
Un’ Italia che stampava ancora moneta di suo (solo un anno più tardi ci saremmo allineati alle privatizzazioni bancarie). Ma che era asservita a tutti, quanti altri mai.
E in nome di qualcosa del genere, leggo di questi tempi, mi dovrei schierare contro ogni emancipazione europea dal dominio angloamericano!
No grazie, abbiamo già dato.
Per farla breve, delle due l’una: o ero io un coglione allora o lo siete adesso voi.

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