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Pestaggi, sevizie, minacce di stupro: i rilasciati raccontano il loro inferno nelle mani dei soldati americani

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Scivolano fuori lentamente, contano i passi che mancano all’ultimo filo spinato, si trascinano nella polvere. E non si voltano mai i dannati di Abu Ghraib. Zoppicano, barcollano, storditi dall’aria che non respiravano più e dalla luce che non vedevano più si guardano intorno sperduti, cercano una faccia amica, cercano un fratello, un padre, una madre. Poi finalmente calpestano un po’ di terra che è la loro libertà.

E uno dopo l’altro, cominciano a raccontare gli orrori. Acqua bollente e sabbia infilata con gli imbuti nelle orecchie. Gas spruzzati negli occhi. Colpi di bastone in faccia e in testa. Sostanze irritanti spalmate sulla pelle. Minacce di stupro. Cani aizzati contro. Tutti gli incubi di Abu Ghraib. Parlano loro, parlano le vittime del carcere della vergogna.

Sembrano come fantasmi questi uomini che hanno appena lasciato l’inferno che è lì dietro. E’ proprio lì a cento metri la prigione dove Saddam per trent’anni aveva massacrato gli iracheni, il “campo” dove soldati americani negli ultimi mesi hanno seviziato veri e presunti guerriglieri catturati in quel “triangolo sunnita” che da Bagdad tocca da una parte Falluja e dall’altra la città di Ramadi.

Mezzogiorno, sole implacabile, folla dei parenti che urla “go home” ai militari sempre più nervosi sulle torrette del carcere. Ecco, all’improvviso esce il primo dei quasi trecento prigionieri che saranno liberati entro il tramonto. Cammina a fatica, inciampa, cade, si rialza ondeggiando. E’ alto, smilzo, la barba incolta. E’ di Khanakine, un villaggio ad est della capitale. Si chiama Alì El Shibibi e ha trentadue anni. La sua voce sofferente spiega cosa è stata la sua vita per otto mesi: “Mi sono accadute cose terribili, in certi momenti avrei preferito morire. A settembre mi hanno rinchiuso là dentro e ho sempre dormito a terra. Di giorno e di notte i soldati americani mi prendevano a calci in faccia e nello stomaco, quando urlavo mi spruzzavano negli occhi un gas e non vedevo più niente. Loro ridevano e continuavano a picchiarmi”. Alì si ferma, guarda il ragazzo che sta avanzando oltre il filo spinato. E’ un altro che stava anche lui in uno degli otto “settori” di Abu Ghraib, era finito in una cella di pochi metri dove erano pigiati in venti. Il suo nome è Salh Hussein, è di Falluja. Salh non parla, non dice neanche una parola. E’ sotto choc. Arriva un fratello e se lo porta via, lo carica su un furgone che scompare sulla strada per Bagdad.


La folla dei parenti arrivata di prima mattina davanti Abu Ghraib è in tumulto. I ragazzini cominciano a lanciare pietre contro i soldati, le donne gridano, gli uomini si accalcano sempre più vicini all’ultima barriera prima delle torrette. Esce Aizat, che ha 28 anni ed è di Ramadi. Anche lui da settembre era rinchiuso in una camerata dove ce ne stavano più di cinquanta. Racconta: “Ogni sera i soldati mi dicevano che mi avrebbero messo dentro le orecchie acqua calda e sabbia, qualche volta lo facevano… diventava un impasto come il cemento, il dolore era insopportabile, urlavo, piangevo e loro facevano finta di non sentire e continuavano a infilarmi acqua e sabbia nelle orecchie con un imbuto”. E racconta: “Qualche volta mi gettavano addosso una sostanza irritante, ho tutta la pelle della schiena bruciata”. Solleva la tunica bianca e mostra i segni della tortura. E racconta ancora: “Tutti i mesi li ho passati sdraiato a terra, di giorno e di notte. Non mi facevano alzare mai, appena provavo a sollevarmi mi insultavano e mi bastonavano. D’inverno accendevano i condizionatori per farci morire dal freddo. Eravamo sempre nudi, non ci facevano avere mai uno straccio addosso. Qualcuno ci diceva che prima o poi ci avrebbero anche violentato”.

Escono soli o a gruppi di tre o di quattro i prigionieri sopravvissuti ai gironi di Abu Ghraib. Sono tutti ragazzi o giovani uomini. Oggi libertà anche per Hadi Phasan, vent’anni, preso una notte di sedici giorni fa in un quartiere di Bagdad insieme ai suoi quattro fratelli. Dice: “Da quella notte di metà aprile non li ho più visti, credo che siano ancora in un angolo di questa prigione. Per me e per i miei fratelli nessuna accusa specifica, ci hanno preso e basta. E poi portato qui”. Apre la bocca Hadi e fa vedere che non ha più quattro o cinque denti. Spiega: “Me li hanno rotti a colpi di canna di fucile e di bastone, mi facevano domande alle quali non sapevo cosa rispondere

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