Quel salentino che voleva cambiare il mondo e non aveva paura di niente e di nessuno
C’è stato un periodo nel quale ero davvero convinto, io come tanti altri giovanotti di belle speranze, di poter cambiare il mondo. In quegli anni, archiviati con l’etichetta “Sessantotto”, la politica la si faceva stando tutti insieme tutto il tempo. Non ricordo chi, ma qualcuno un giorno disse: «Io faccio politica pure a letto con la donna» e fummo d’accordo. Ci sentivamo complici e lo eravamo. Infilati tra i “compagni” e i “camerati”, noi di “Lotta di Popolo” ci chiamavamo “compagni di lotta”. Volevamo distinguerci, far vedere che stavamo oltre le vecchie contrapposizioni. Ricordo che una mattina a Roma, davanti all’ingresso principale della città universitaria che avevamo occupato, spiegai la cosa a Franco Piperno. Non fu facile perché ero di Giurisprudenza, la facoltà più “nera” in assoluto, e lui era già uno dei leader “rossi” del “Movimento studentesco”. A lui, che insisteva a chiamarmi “compagno”, dissi che noi eravamo in quel momento “compagni di lotta”. Facevamo un pezzo di strada insieme, ecco tutto. Ci trovavamo d’accordo nella condanna di una società edonista, vacua e ingiusta, ma avevamo in mente progetti del tutto diversi. La sua cultura marx-leninista, sia pure temperata da aggiustamenti del “marxismo critico”, gli impediva di condannare, per esempio, l’imperialismo sovietico insieme con quello statunitense, oppure di manifestare per Jan Palach immolatosi a Praga davanti ai carri armati di Mosca.
Noi che occupavamo la facoltà di Legge eravamo in massima parte provenienti da ambienti di destra (Msi, Giovane Italia, Fuan…) nei quali per ragioni ideologiche eravamo stati bollati come eretici e/o dai quali eravamo stati espulsi. Oppure dai quali ce n’eravamo andati. Io, per esempio, avevo lasciato la “Giovane Italia”, l’organizzazione giovanile del Msi, nel 1965 al congresso missino di Pescara. Nella mia città, a Salerno, buona parte del Msi s’era schierata con Giorgio Almirante il quale contestava al segretario Arturo Michelini la democristianizzazione (sintetizzo in questo modo perché qui voglio parlare d’altro) del partito e noi ragazzi (io non ero ancora diciottenne) conoscevamo a memoria i diciotto punti della Carta di Verona. Ci sentivamo, cioè, fascisti della Repubblica Sociale. Ma anche questo è un argomento che ora debbo saltare.
Insomma, nella palazzina di Giurisprudenza occupata dormivamo in pochi (l’occupazione era stata decisa da una affollatissima assemblea, ma gli studenti di Legge non erano proprio dei rivoluzionari e soltanto qualcuno di loro sapeva cosa fosse un sacco a pelo) e con uno ci feci proprio amicizia. Si chiamava Walter Spedicato, veniva da Lecce (da Novoli, per l’esattezza) e s’era presentato come “mazziniano d’assalto”. La cosa fece sorridere più di qualcuno ma in effetti, in quel momento, era uno dei pochi, se non l’unico, ad avere tutto il diritto di rappresentare una terza via tra i “camerati” e i “compagni”. Aveva saltato tutto un secolo collegandosi direttamente ai moti risorgimentali ed all’estremismo di un Mazzini (del quale all’epoca io sapevo poche inutili cose scolastiche) apostolo del tirannicidio.
Tuttora apprezzo la sana violenza del bisturi chirurgico, figuriamoci quarant’anni fa.
Il lucchetto aperto
Walter non aveva paura di niente e di nessuno. Perfino a Parigi, da latitante, una notte scatenò un putiferio in un bistrot. Noi, Achille e io, avemmo paura che i flic ci portassero tutti via. Lui no. I suoi documenti falsi erano perfetti, insisteva ridendo quando a buriana finita c’incazzammo con lui.
Una mattina, a Legge occupata, tenne a bada al cancello Umberto Improta e un altro poliziotto di eguale peso ma di cui mi sfugge il nome (fecero entrambi una prestigiosa carriera) discettando e strillando di jus conditum e jus condendum fino a svegliare qualcuno che l’aiutasse ad impedire l’ingresso ai due. Quel casino l’avevo causato io. Il pomeriggio prima ero stato prelevato da un paio di ragazze perbene e portato ad una festa. Volevano provare il brivido di stare con un rivoluzionario e finì che ci rinchiudemmo in una stanza. Tornai quasi all’alba e sbronzo com’ero non chiusi il lucchetto della catena al cancello. Walter s’era svegliato per caso e aveva sorpreso i due poliziotti mentre stavano per entrare.
La cosa restò un segreto tra noi due. Gli altri pensarono che fosse stato un tentativo di intrusione con relativo scassinamento.
A volte mi prende la voglia di raccontare per intero fatti e misfatti di quegli anni, poi mi limito a fare come adesso: scrivo senza un progetto, lo faccio per me, per ricordarmi com’ero. E per ricordare quelli che sono morti. Sono davvero tanti e Walter, insieme con Leucio Miele e Enzo Maria Dantini, è l’amico compagno di lotta che più rimpiango.
Io sono ancora vivo. Sono un privilegiato. Lo so da quando ero ragazzino. Dalla vita ho avuto tante di quelle conferme che se pure mi cascasse adesso il mondo sulla testa resterei un privilegiato. Ho una moglie, cinque figli, quattro nipoti (che a novembre salgono a 5) e faccio un lavoro che non mi costa fatica. A volte mi piace, perfino.
Sono arrivato a 64 anni e li avrebbe compiuti anche Walter se non fosse morto latitante in Francia circa vent’anni fa (era il 9 maggio del 1992).
Un mese di anzianità
Nati entrambi nel 1947, tra noi c’era un mese di differenza (lui il 26 ottobre, io il 22 settembre). Capitava che io facessi valere il fatto che fossi più vecchio di lui. Poteva essere una sedia più comoda o il diritto a scegliere la donna per primo. La vita era un gioco e giocavamo. Negli anni in cui me ne andai in montagna con moglie e figli, lui restò a Roma. A volte scendevo io, a volte saliva lui. L’ultima volta che l’ho visto nell’ospedale dov’era stato ricoverato mi sono fatto accompagnare da mia moglie. Non sapevo che sarebbe morto di lì a poco, ma lo temevo e perciò decisi che lei potesse correre il rischio. Walter era ancora un super ricercato e le precauzioni non erano mai troppe. Una volta, sull’aereo m’imbattei in un altro antico compagno di lotta che andava a Parigi per un affare di libri. Mi chiese che andassi a fare in Francia e io lo pregai di tenere il segreto per carità perché m’aspettava una francese tutto pepe e se mia moglie l’avesse saputo non me l’avrebbe perdonata. Non è che non mi fidassi di lui, ma Walter era l’unico latitante mai individuato perché aveva conservato pochissime frequentazioni. Uno dei francesi che aveva fondato “Lutte du Peuple”, e che aveva una libreria sulla rive gauche, ogni tanto incontrava Walter ma non sapeva dove abitasse.
Anche Walter gestì per qualche anno una libreria. C’eravamo sciolti come “Lotta di Popolo” trasformandoci in associazione culturale. Per una serie di circostanze che racconterò in altra occasione, mettemmo le mani (ciascuno di noi fece un mutuo in banca) su una libreria pochi passi da Montecitorio. Intorno al gruppo ruotavano intellettuali e qualche rivenditore di libri per conto di edizioni come “Ar”, la casa editrice di Freda, e perciò a loro ci rivolgemmo per la gestione. Come fu, come non fu, per un motivo o per l’altro, non trovammo nessuno. Uno, ahinoi!, chiese il contratto e le garanzie che la libreria sarebbe andata economicamente bene. Walter si offrì di incaricarsene. Qualcuno storse la bocca (che ne capiva Spedicato di commercio?) ma in maggioranza approvammo la candidatura. La “Libreria Romana” diventò subito un “covo” di ribelli d’ogni specie. Forse mi sbaglio, ma sono sempre stato convinto che lì “Terza Posizione” avesse dato i primi vagiti, per così dire. Quel negozio fu giudicato assai pericoloso dai “rossi” (noi li chiamavamo “fascisti rossi”, ma pure questa è un’altra storia) i quali l’assalirono a colpi di molotov. Walter si salvò per miracolo, ma la libreria andò semidistrutta.
Ovviamente, appena gli fu possibile, riprese il lavoro e le discussioni con ragazzi che andavano da lui non per comprare libri (anzi, capitava spesso che li regalasse lui) ma per organizzare la lotta.
Un gioco sanguinoso
Negli anni nei quali vissi in montagna, Walter abitò in via Lorenzo il Magnifico, a pochi passi dalla Stazione Tiburtina.
Ci vedemmo poco in quel periodo. L’attività politica era complicata dalla lotta armata. L’aggettivo “complicato” è miserevole rispetto a ciò che succedeva, ma per le tragedie, per gli agguati, per i tradimenti, per i morti sarebbero troppi gli aggettivi da usare. Gli scontri “tradizionali”, quelli per il controllo del territorio, per l’agibilità politica, si facevano oramai a colpi di pistola.
Come si fosse arrivati a quel punto, non so chi potrebbe spiegarlo, ma di certo c’entravano brigadieri e marescialli.
C’entrava pure il Pci, come scoprii lavorando per qualche tempo all’Avanti, diretto per interposta persona da Bettino Craxi rifugiatosi tra i pescatori di Hammamet. I documenti segreti che pubblicammo mostravano incredibili coincidenze: tutte le volte che Mosca decideva di ridurre i finanziamenti ai compagni italiani, si scopriva un qualche golpe organizzato dalla reazione (che, per definizione, era costantemente in agguato) oppure pericolosi gruppi neofascisti (protetti dai padroni, ovvio) assalivano pacifici giovani combattenti per la libertà.
La delegazione del Pci correva al Cremlino da Ponomarev (l’ufficiale pagatore, per capirci) a spiegare il terribile errore che avrebbe commesso il Politburo (l’ufficio politico sovietico) dando una stretta al rubinetto dei rubli proprio mentre si facevano più aggressive le minacce dei fascisti italiani.
C’entrava anche la Dc, la quale s’ergeva a tutela dell’Italia aggredita dagli opposti estremismi e conservava anche in questo modo il potere.
Di ciò che succedeva e di come difendersi più di come reagire, parlavamo giornate intere quando Walter veniva a Tremonti, il paesino dove ero andato a vivere, per “motivi di salute” con moglie e figli. A volte capitava insieme con qualche ragazzo di belle speranze (alcuni dei quali dovettero poi riparare all’estero accusati di terrorismo), a volte io facevo rapide irruzioni a casa sua.
Ma non era tutta politica. Tanto per dirne una, una sera il Farfalla, eccezionale rimorchione di straniere (oggi fa l’avvocato), piombò con un tris di allegre neozelandesi a caccia di italian lovers.
Lo stomaco delicato
Ai tempi del “Movimento studentesco di Giurisprudenza” (dal quale avremmo poi tirato fuori “Lotta di Popolo”) le giornate le passavamo nella città universitaria. Alla mensa dello studente, in via Cesare De Lollis, in breve tempo Walter era diventato noto a tutti i camerieri. All’epoca non c’era il self-service. Mangiavamo ai tavoli serviti di tutto punto. Il posto si prenotava lasciando sotto una bottiglia d’acqua il ticket (costava non ricordo se 300 o 350 lire) strappato a metà. Noi, “rivoluzionari”, avevamo un trattamento di favore, per cui non facevamo mai la fila. Ci pensavano i camerieri a prenotarci i posti.
Walter era stato allevato in un ristorante di qualità, a brodo di aragosta, e diceva di essere delicato di stomaco, fegato, milza e non so che altro. A lui servivano pasta in bianco, formaggini, fettine di carne, insalate… non sgarrava mai. Poi cominciò a venire con noi in birreria (prediligevamo quella in Piazza Santi Apostoli, dove se non conoscevi il trucco la birra ti schizzava in faccia dal fondo dello stivaletto che ti servivano invece del tradizionale boccale) e imparò a mangiare di tutto.
Anni dopo, quando abitavo a Ostia, veniva spesso a cena da noi e mia moglie s’arrabbiava tutte le volte perché aveva l’abitudine di lasciare sempre qualcosa nel piatto. La chiamava “crianza leccese”; era un costume delle sue parti per far capire che non si era affamati e che le porzioni erano talmente abbondanti da non riuscire a spazzolare tutto. Beh, il teatrino che ne veniva fuori ci faceva ridere tutti e Walter dovette rassegnarsi a lasciare la “crianza leccese” sul pianerottolo di casa.