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Quanto al barile?

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La guerra nello Yemen e le plusvalenze petrolifere fanno pensare che non abbia altro scopo

Distratti dallo shale oil americano e dalle politiche lassiste dell’Opec, i mercati petroliferi sembravano aver dimenticato la geopolitica. L’escalation in Yemen ha provocato un brusco risveglio. Le quotazioni del Brent, il greggio di riferimento europeo, si sono impennate di oltre il 5% arrivando fino a sfiorare 60 dollari al barile in seguito alla notizia di un coinvolgimento militare diretto da parte dell’Arabia Saudita, affiancata da un’ampia coalizione di paesi sunniti e con l’appoggio esterno degli Stati Uniti.
Lo Yemen è tutt’altro che cruciale come fornitore di greggio: la sua produzione – che nel 2001, in tempi di pace, aveva raggiunto 440mila barili al giorno – è in calo da molti anni a causa del declino naturale dei giacimenti e della catena di attentati che hanno colpito le infrastrutture dal 2011, quando sono iniziati i disordini nel paese. Dai suoi pozzi oggi non vengono estratti più di 130mila barili al giorno, più o meno quanti ne produce l’Italia.
La posizione geografica dello Yemen, tuttavia, giustifica il nervosismo con cui i mercati (non solo petroliferi) hanno accolto gli ultimi sviluppi di cronaca. Il paese che si estende nella parte meridionale della Penisola arabica è nel cuore del Medio Oriente, dove già Iraq e Siria sono fonte di grave allarme. L’inasprirsi della contrapposizione tra sunniti e sciiti rischia di trascinare nel conflitto anche l’Iran, anche se l’eventualità è ritenuta poco probabile. E in qualche modo potrebbe anche compromettere i negoziati per un accordo sul nucleare con Teheran.
Lo Yemen per un lungo tratto confina con l’Arabia Saudita, che è il primo fornitore mondiale di greggio, con circa 10 milioni di barili al giono: i suoi pozzi sono lontani dalle aree di combattimento, ma persino il Kuwait – che è ben più lontano – ha fatto sapere di aver rafforzato la sicurezza intorno alle installazioni petrolifere, dopo essersi schierato accanto a Riyadh nei raid contro i ribelli sciiti Houthi.
Le acque territoriali yemenite, inoltre, sono percorse ogni giorno da decine di petroliere. Di particolare importanza è Bab el-Mandeb: lo stretto che separa il paese da Gibuti ed Eritrea, mettendo in collegamento il Golfo di Aden con il Mar Rosso. In questo braccio di mare, il cui nome alla lettera significa “porta delle lamentazioni funebri”, transitano in media 3,8 milioni di barili al giorno di greggio e prodotti petroliferi, diretti in Asia o viceversa a nord, verso il Canale di Suez, attraverso il quale raggiungono il Mediterraneo.
Secondo il dipartimento dell’Energia statunitense, si tratta di uno dei quattro maggiori “colli di bottiglia” per il commercio di petrolio nel mondo: un passaggio strategico, che nel caso diventasse inagibile costringerebbe a raggiungere l’Europa circumnavigando l’Africa, una rotta lunghissima e costosa.
Gli analisti non ritengono che gli Houthi abbiano le capacità e i mezzi militari per prendere il controllo di Bab el-Mandeb. Il Consiglio marittimo baltico e internazionale, che rappresenta gli armatori di 130 paesi, ha tuttavia avvertito che «c’è la possibilità che i pirati sfruttino la generale instabilità dell’area come copertura per attacchi nel sud del Mar Rosso». 

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