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Quella strage partigiana

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Una pièce su via Rasella

Per andare da Casalbertone a Termini, a piedi, ci vogliono 50 minuti. Le pallottole non fanno curve, corrono dritte. Niente whiskey, c’è solo l’amaro fatto in casa. Quelle che imparano a scrivere a macchina studiano dattilografia. I notai sono ricchi. Vittorio, protagonista di “Dopo Via Rasella”, si fa prendere da tutto questo mentre tenta di raccontare a Giacomo (Antonio Pisu) la rappresaglia seguita all’attentato del GAP in cui rimasero uccisi 33 tedeschi e che costò la vita a 335 italiani. Si fa prendere da visioni e battute. Vuole dire quanto freddo fa, quanto cammina, com’è il suo lavoro. Non pensiamo mai che alla storia sia attorcigliata la vita e a quanto essa sia materialista, pratica. Se immaginiamo Roma, la mattina dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, la pensiamo solenne, piegata. Invece, era solo Roma: fredda, lunga, rumorosa, tutti incazzati. Compreso Vittorio, ferroviere ed ex alpino, reduce dalla guerra in Grecia, che si sveglia dicendosi “oggi non vado a lavoro”, ma poi ci va. E passa al cimitero, perché di parlare con Dio non se la sente, ma con la moglie sì.

Vittorio, nella sua narrazione, fa vincere la vita, che è sempre una distrazione dal suo senso, dal percorso collettivo su cui il tempo la incunea. Non appena comincia a capire cosa gli è successo, di essere stato salvato dal rastrellamento e di essere, quindi, un debitore, Pierpaolo De Mejo, che di “Dopo Via Rasella” è autore, sceneggiatore e attore, fa calare il sipario. Una scelta perfetta che rende lo spettacolo, in scena a Roma dal 6 al 30 novembre presso il Teatro Elettra, quello che il suo autore voleva che fosse: il racconto di una vicenda umana, i cui protagonisti (con Vittorio e Giacomo c’è una ragazza, Olivia Cordsen, che ricorda che si sta parlando di guerra, che sono morte persone ed è importante dire quante e come) hanno un ruolo misericordioso: prescindere da bene e male, dalle coscienze dei carnefici.

Per Adorno, dopo l’olocausto non sarebbe più stata possibile la poesia. Si ricredette presto, capendo che proprio da poesia e arte l’umanità sarebbe ripartita. Pierpaolo, trentenne poderoso, dimostra che il teatro, che è poesia mobilitata, può essere civile senza essere politico, guardando con gli occhi (non con i manuali) la storia. Se riuscissimo ad affrontarla senza emotività, l’appropriazione delle tragedie per corroborare o distruggere ideologie sarebbe impensabile: basterebbe l’intuito per illuminarci sulla funzionalità degli eventi e riallacciarci all’empatia verso gli altri esseri umani, anche quelli con le responsabilità peggiori. Quando ci riusciremo, potremo riflettere su quanto strana sia stata la scelta dei partigiani, a pochi giorni dalla liberazione di Roma, di attentare alla vita dei tedeschi, ormai in ritirata.

 

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