L’epopea dei liberatori
Stanno ancora laggiù, come rifiuti tra i rifiuti, dimenticati da tutti. Sono i ragazzi italiani e tedeschi gettati – a guerra finita, si badi – nella foiba di Campastrino, un inghiottitoio di tipo carsico che, tuttavia, non si trova in Istria o nell’area giuliano-dalmata, bensì nella occidentalissima Liguria, in provincia della Spezia.
Nulla a che vedere, dunque con i feroci partigiani del IX Corpus del maresciallo Tito, ma con quelli nostrani, azionisti e comunisti.
Sul fondo del crepaccio biancheggiano ancora cumuli di ossa, costole, tibie e femori. I teschi sono scivolati via da quegli elmetti di foggia italiana e germanica che arrugginiscono insieme, alla rinfusa, nell’atmosfera satura di umidità. Tondeggianti i primi, squadrati e «celtici» i secondi.
Li indossavano i soldati della Wehrmacht e della Xª MAS di stanza nei forti che circondano il Golfo, dove difendevano le batterie costiere amalgamati in reparti misti.
«Furono due le precipitazioni», spiega l’avvocato Emilio Guidi, membro del locale Comitato onoranze, «la prima avvenne durante la guerra. Mentre la 148ª divisione tedesca si sganciava verso la pianura padana, un suo reparto forse rimasto senza ordini o tagliato fuori, scelse la strada verso Genova».
I militari incapparono presso san Benedetto, nei quattrocento partigiani comunisti e azionisti delle divisioni «Vanni» e «Giustizia e Libertà». Dopo aspri combattimenti, circa dieci soldati rimasti ancora in vita furono catturati e ristretti in una casupola di legno nel bosco, priva del tetto.
Qualcuno parla di un tentativo di fuga, fatto sta che i partigiani lanciarono dentro la baracca delle bombe a mano e li ammazzarono tutti. Per disfarsi facilmente dei corpi li gettarono nella foiba di Campastrino.
La seconda precipitazione fu gravissima, perché avvenuta a guerra finita e coinvolse i cinquanta prigionieri italo-tedeschi del castello di Calice, gestito dal partigiano azionista Luigi Carbonetto. Costui, dovendo consegnarli agli americani presso La Spezia, li affidò a un gruppo di partigiani rossi che già detenevano altri venti tedeschi nella caserma della GNR di via Vecchio ospedale a La Spezia. Era il primo maggio e i comunisti celebrarono la festa dei lavoratori a modo loro. Invece di consegnarli agli americani, li portarono a Campastrino e qui, come raccontava lo stesso Carbonetto, li infoibarono.
La gran parte di quegli ottanta soldati è ancora laggiù, dato che una strozzatura dell’inghiottitoio rende molto difficile il recupero dei resti ammassati sul fondo. Ad aggravare la situazione, una quantità di residuati bellici, bombe, mine, proiettili che rendono pericoloso il recupero.
Nel corso dei decenni sono stati effettuati tre tentativi. Il primo, del 1972, fu effettuato dallo scopritore della foiba, Giuseppe Zanelli, che era stato ufficiale nel regio esercito e poi nella Xª MAS e nelle Brigate nere. Costui volle verificare le dicerie su Campastrino e fece inviare giù un gruppo speleologico.
Durante l’estrazione delle prime ossa fu recuperata anche una Tellermine (mina anticarro) tedesca che condusse i Carabinieri a bloccare l’operazione.
In quell’occasione furono rinvenute tre piastrine di riconoscimento tedesche. Sappiamo quindi i nomi di almeno due soldati: Walter Demann e Karl Abe. Il terzo era un marinaio della Kriegsmarine, ma non si poté comprendere il nome. I resti furono poi composti in una cassetta di zinco, benedetti e inumati nel cimitero tedesco del Passo della Futa.
Successivamente, una seconda esplorazione fu effettuata da Onorcaduti, il comitato di onoranze della Difesa, che effettuò il recupero di altre ossa. Infine, nel 2007, lo storico Marco Pirina, studioso delle foibe deceduto da qualche anno, organizzò un’équipe di volontari specializzati che arrivò certamente sino in fondo alla foiba, verificando come vi fosse stata gettata anche quella enorme quantità di detriti e rifiuti che, ancor oggi e per molti metri d’altezza, ricopre gli scheletri rimasti.
Il Comitato per le onoranze de La Spezia si augura che anche grazie a un interessamento dell’ambasciata tedesca venga effettuato un completo recupero dei resti umani o che, almeno, su quella foiba venga posta una lapide commemorativa per ricordare i caduti che giacciono lì sotto.
Dovrà comunque essere un cippo robusto per resistere ai vandalismi di cui sono immancabilmente oggetto i lacerti di una memoria scomoda.