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Risiko 2021

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Gli scenari al tempo di Biden e Covid

Non solo coronavirus: quello appena trascorso è stato un anno ricco di eventi, iniziato il 3 gennaio con il raid Usa che ha ucciso a Baghdad Qassem Soleimani, figura chiave del regime degli ayatollah e capo della Forza Quds, componente del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, proseguito a settembre con la guerra azero-armena nella regione del Nagorno-Karabakh e terminato a novembre con la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane. Salutando lo sciagurato 2020, l’intera umanità auspica un 2021 più sereno dopo dodici mesi segnati inevitabilmente da una pandemia che ha sconvolto il mondo. Ma non è tutto rose e fiori e come nota la rivista statunitense Foreign Policy, ci sono dei possibili conflitti da tenere d’occhio nei prossimi 12 mesi.

Afghanistan
Secondo Foreign Policy, nonostante i piccoli ma significativi progressi nei colloqui di pace, molte cose potrebbero andare storte per l’Afghanistan nel 2021. “Dopo quasi due decenni di combattimenti, il governo degli Stati Uniti ha firmato un accordo con i ribelli talebani a febbraio. Washington si è impegnata a ritirare le truppe dall’Afghanistan in cambio dell’impegno dei talebani a vietare ai terroristi di utilizzare il Paese per operazioni e ad avviare colloqui con il governo afghano” scrive la nota rivista. Il New York Times ha documentato la morte di almeno 136 civili e 168 membri delle forze di sicurezza in omicidi dietro i quali ci sarebbero i talebani, cifra peggiore di quasi qualsiasi altro anno di guerra. Gli attacchi – diretti contro funzionari pubblici, membri dei media, operatori dei diritti umani e ex e attuali membri delle forze di sicurezza – rappresentano un passaggio da attacchi mirati a funzionari di alto profilo da parte dei talebani e di altri gruppi che operano nel Paese appartenenti alla società civile. Omicidi che documentano quanto il Paese rimanga instabile mentre l’esercito degli Stati Uniti si prepara a ritirarsi dall’Afghanistan dopo quasi due decenni di combattimenti.

Etiopia
Nell’ottobre dello scorso anno, le tensioni tra il governo federale dell’Etiopia, guidato dal primo ministro vincitore del Premio Nobel per la pace Abiy Ahmed, e le autorità ribelli nella regione settentrionale del Tigray sono sfociate in uno scontro militare. Così il 4 novembre scorso le forze federali etiopi hanno dato via all’assalto alla regione: come spiega il Wall Street Journal, il 28 novembre, le forze governative hanno dichiarato di aver preso il controllo della capitale della regione, Mekelle, che ospita 500.000 civili e migliaia di combattenti del TPLF, il Fronte di liberazione popolare del Tigray. Il premier Ahmed ha spiegato che la guerra è finita, ma gli scontri sporadici proseguono. Le linee telefoniche e Internet rimangono interrotte in gran parte della provincia, rendendo difficile la verifica delle informazioni.
Le truppe governative sembrano aver affrontato poca resistenza. I combattenti del TPLF si sono probabilmente mischiati nella popolazione civile e si sono rifugiati in altre parti dello stato, e secondo molti analisti si stanno preparando a organizzare una rivolta armata contro il governo federale. Le tensioni tra il governo federale dell’Etiopia e il TPLF sono aumentate da quando Ahmed è diventato primo ministro nel 2018. Il TPLF ha dominato la coalizione di governo dell’Etiopia per quasi tre decenni, e i suoi abitanti costituiscono circa il 6% dei 110 milioni di persone dell’Etiopia, e detengono posizioni importanti in politica e affari.

Il Sahel
Secondo Foreign Policy, la crisi che sta travolgendo la regione del Sahel del Nord Africa continua a peggiorare. Il 2020 è stato l’anno più duro dall’inizio della crisi nel 2012, quando i militanti islamisti hanno invaso il nord del Mali, facendo precipitare la regione nell’instabilità. I jihadisti sono una presenza importanti in molte aree rurali del Mali e del Burkina Faso e stanno facendo breccia nel sud-ovest del Niger. L’intensificarsi delle operazioni antiterrorismo francesi nel 2020 ha inferto duri colpi alla filiale locale dello Stato Islamico (Daesh) e ucciso diversi leader di al-Qaeda. Come riportato da Davide Bartoccini su InsideOver, si sta combattendo una brutta guerra in Sahel. Una guerra complessa, asimmetrica, nella quale si mischiano e si scontrano reclute di eserciti locali, poco preparate e mal armate, terroristi sanguinosi e risoluti, e soldati europei, che nonostante l’impiego delle armi e dei mezzi più sofisticati, non riescono ad arginare in nessun modo la minaccia. Uno scenario che ha tutte le carte per diventare il vero nuovo fronte caldo della “guerra santa”, combattuta ciecamente dalle ultime bandiere nere dell’integralismo islamico.
Sempre sulle colonne di questa testata alcuni giorni fa si spiegava come la regione del Sahel, duramente provata dal terrorismo jihadista, si è trovata al centro di un’operazione congiunta dell’Interpol e delle Nazioni Unite volta a smantellare i traffici illeciti che hanno luogo in questi territori. L’operazione KAFO II, durata ben sette giorni, si è focalizzata su aeroporti, confini terresti e porti di Burkina Faso, Costa d’Avorio, Mali e Niger e si è conclusa con il sequestro di armamenti, munizioni e benzina di contrabbando. I gruppi jihadisti sono diventati una minaccia per la sicurezza del Sahel a partire dal 2012, in seguito allo scoppio della crisi in Mali. Gli Stati del Sahel, per fronteggiare questo pericolo, hanno dato vita a numerose operazioni militari con il contributo di partner internazionali come Francia, che dal 2013 ha inviato migliaia di soldati nella regione e Stati Uniti.

Yemen
Il disastro umanitario peggiore degli ultimi anni. Lo scorso 30 dicembre, riporta il New York Times, un attacco all’aeroporto di Aden, nello Yemen, ha ucciso almeno 20 civili e ne ha feriti altrettanti proprio mentre stava atterrando un aereo che trasportava membri del gabinetto governativo di recente formazione. La formazione del nuovo governo avrebbe dovuto essere un passo verso la risoluzione di una guerra per procura che ha ucciso decine di migliaia di civili e portato il Paese in quella che le organizzazioni internazionali definiscono la peggiore crisi umanitaria del mondo.
Il conflitto yemenita è iniziato alla fine del 2014 e si è intensificato nel 2015, quando una coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha iniziato una campagna di bombardamenti. I combattimenti si svolgono principalmente tra i ribelli Houthi con sede nel nord dello Yemen, lungo il confine saudita, e un governo a sud sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Gli Houthi controllano gran parte dello Yemen settentrionale, inclusa la capitale Sanaa. Il governo ha sede ad Aden, una città portuale nel sud, ma opera in gran parte in esilio in Arabia Saudita. Se non cambieranno le carte in tavole, il 2021 rischia di essere un altro anno cupo per gli yemeniti.

Venezuela
Come nota Foreign Policy, sono ormai passati due anni da da quando l’opposizione venezuelana, gli Stati Uniti e i paesi dell’America Latina e dell’Europa hanno proclamato Juan Guaidó presidente ad interim del Venezuela al posto di Nicolas Maduro, sostenuto – fra gli altri – da Cina e Russia. In tal senso, gli sforzi Usa di rovesciare Maduro si sono persino rivelati controproducenti: e dopo una campagna di “massima pressione” guidata da Washington – che comprende sanzioni, isolamento internazionale, minacce implicite di azione militare e persino un colpo di stato fallito – l’erede di Chavez è ancora al suo posto, forse più forte di prima. Come illustrato da Andrea Walton su InsideOver, le elezioni legislative venezuelane del sei dicembre si sono concluse con la netta affermazione del Grande Polo Patriottico, l’alleanza politica che sostiene il presidente Nicolàs Maduro, mentre la variegata opposizione politica del Paese, riunita nell’alleanza denominata Tavolo dell’Unità Democratica (MUD), ha scelto di boicottare il voto.
Si attendono ora le decisioni della nuova amministrazione americana. I consiglieri del presidente Biden intenderebbero, secondo quanto segnalato da alcune fonti riportate da Bloomberg, negoziare con Maduro per porre fine alla crisi economica ed umanitaria. L’amministrazione americana intende mettere sul tavolo la seguente proposta: elezioni libere e democratiche in cambio di un alleggerimento delle sanzioni e senza imporre alcuna precondizione come, ad esempio, la possibile uscita di scena di Maduro.

Iran-Stati Uniti
Uscendo dall’accordo sul nucleare siglato nel 2015, l’amministrazione Trump nel 2018 ha introdotto la strategia di “massima pressione” contro Teheran che ha portato i due Paesi sull’orlo del conflitto. Ne è una riprova il fatto che, nelle scorse ore, il ministero degli Esteri iraniano ha promesso che gli Stati Uniti risponderanno alla giustizia per l’assassinio del generale Qassam Soleimani, capo delle forze speciali Quds. “Commettendo un vile atto di terrore contro il generale Soleimani, gli Stati Uniti hanno violato la legge internazionale e la Carta delle Nazioni Unite in una palese violazione della sovranità irachena. L’illegalità degli Stati Uniti è in piena mostra. L’Iran non si fermerà fino a quando non assicurerà i responsabili alla giustizia”, si legge in una nota pubblicata su Twitter. Il terreno di confronto potrebbe essere l’Iraq.
Come spiega un reportage pubblicato su Le Monde, una nuova fase di confronto si è aperta sul suolo iracheno fra “l’asse della resistenza” guidata da Teheran e gli Stati Uniti, sostenuti da Israele e Arabia Saudita. La tregua imposta dalla lotta comune contro l’Isis, infatti, è finita. Riuscirà l’amministrazione Biden a ricucire i rapporti con Teheran?

Libia
La liberazione dei pescatori italiani in Libia ha riacceso l’attenzione sul Paese nordafricano, strategico per gli interessi nazionali dell’Italia nel Mediterraneo. Dopo l’inizio di una guerra civile che ha devastato la Libia nel 2011 con la cacciata di Gheddafi, alla fine di ottobre è stato concordato un cessate il fuoco mentre proseguono i negoziati per una configurazione provvisoria prima delle elezioni presidenziali e parlamentari del 24 dicembre 2021. Tuttavia, secondo il Corriere della Sera, a meno di tre mesi del cessate il fuoco dichiarato tra Tripolitania e Cirenaica, grazie alla mediazione dell’Onu, sono oggi più che mai Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan a dettare le regole del gioco tramite i loro militari schierati nel Paese. S’indebolisce così la speranza della nascita di un governo unitario e cresce invece l’opzione di una divisione a metà del Paese sotto l’influenza a est russa e ad ovest turca.
Nel frattempo, è ripresa dell’offensiva militare da parte del generale Haftar. Le sue colonne, infatti, hanno occupato nelle ultime ore la città di Ubari nel deserto sud-occidentale. Ma Mosca vuole stabilità. Intervenendo a una conferenza stampa a Mosca dopo un incontro con il suo omologo libico Mohamed Siala, il ministro degli esteri Sergey Lavrov ha promesso di fornire “il massimo sostegno” agli sforzi di pace in corso in Libia. Il 2021 sarà un anno probabilmente cruciale per comprendere
il destino del Paese.

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