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Rusty è partito

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Si è rovinato la vita ma forse questo lo ha riscattato

Quelli della mia generazione lo ricordano bene. Insieme al cane lupo – allora si diceva così – Rintintin, e agli ordini del tenente Rip e del sergente O’hara, il caporale onorario bambino Rusty viveva nel fortino all’ultima frontiera. E tutti noi bambini, rapiti da quelle atmosfere del selvaggio ovest, c’identificavamo in lui.
Non potevamo sapere che eravamo oggetto di una propaganda imperialistica, non potevamo sospettare che gli americani intendevano colonizzare il nostro immaginario fin da piccoli. Vivevamo lì, trascinati in avventure nelle quali ci sentivamo la cinquantunesima stella americana.
Per fortuna restavano alcuni filtri naturali che – non potevamo saperlo – dovevamo alla letteratura tedesca sull’epopea indiana: alcuni di noi amavano i pellerossa. Come fare altrimenti nei confronti di persone che parlavano con il cuore, salutavano con la mano aperta e accusavano i visi pallidi di parlare con lingua biforcuta? Io sono stato sempre per gli indiani e per il Sud. Perché, come Rett di Via col vento amo le cause perse? O forse perché le cause belle in un’epoca disgustosa sono destinate a perdere, chissà.

Rusty devastato da una vita disperata
Rusty, al secolo Lee Aaker, è morto ormai settantasettenne consumato da alcool e droga. Ha avuto il buon gusto di non integrarsi, di restare il bambino smarrito nel West. La società dei consumi non lo ha conquistato, lo ha impoverito, lo ha corroso, lo ha annientato. Triste, ma perlomeno Rusty non si è lasciato risucchiare nell’arrogante e volgare mediocrità che impera sia tra i dem che in quella cosa imbarazzante che viene definita Alt Right e che non a caso piace alla destra terminale, così superficiale, sciocca e scialba. Rusty perlomeno si è annientato da solo, invece di veicolare negli altri il niente travestito da qualche cosa.

Americani e inglesi in gara
Noi all’epoca non potevamo saperlo, ma Rintintin faceva parte di un’offensiva imperialistica partita a fine anni quaranta. A quell’offensiva ne rispose un’altra, sempre Wasp, lanciata negli anni sessanta. L’Inghilterra che andava a rotoli, ma continuava ad avere un’influenza massonica e non solo, provò a controbattere l’avanzata americana e ci riuscì. Tra i Beatles, Mary Quant, la minigonna, la mini minor, Twiggy, James Bond, i Rolling Stones, Carnaby street, i Rockers e i Mods passò attivamente al contrattacco e nel 1966, con la vittoria al mondiale di calcio facilitata dagli arbitri che consentirono l’azzoppamento di Pelé e l’assegnazione di una rete mai entrata nella finale contro la Germania, tornò in vetta.
Intanto andava a picco economicamente, tanto da vendersi addirittura Gladio agli americani senza evitare d’intorbidire comunque le acque per favorire la strategia della tensione.
Venne infine salvata dalla bancarotta dalla scoperta del petrolio nel Mare del Nord e dall’adesione alla Comunità Europea, sempre osteggiata da De Gaulle, che, qualsiasi cosa si pensi della Brexit oggi, all’epoca salvò letteralmente le natiche agli inglesi che, come sempre han fatto, da allora presero tanto e diedero pochissimo.

Soppiantare il francese!
Questo derby dell’anglosfera si giocò sulle nostre teste. Ebbe luogo all’interno dell’offensiva imperialistica che a partire dagli anni sessanta ha imposto l’inglese come lingua universale soppiantando il francese e poi ha finito col farci usare centinaia di termini britannici, perlopiù orrendi, al posto dei nostri che sarebbero ben più appropriati e più belli.
Per tutti gli anni sessanta il francese, come lingua e come immaginario, provò a tener botta a quest’offensiva che verteva a soppiantarlo. Si pensi  ai Moschettieri, ai Miserabili, a Maigret, a Belfagor.
La lingua dei nostri cugini d’oltralpe non poteva però reggere lo scontro non soltanto per il divario di potenza rispetto ai poli dell’inglese ma perché questa lingua è più adatta ad esprimere il semplicismo, la superficialità e l’abbrutimento. Lo è sintatticamente e foneticamente.
Il francese è lingua d’immagini e di organicità, come l’italiano. L’inglese è un dialetto germanico al contempo primitivo, involuto e sincopato che ben si adatta alla precipitazione verso l’abisso del mentale umano.
In quest’imperialismo che tra i suoi scopi aveva quello di svuotare le menti e di neutralizzare in noi la capacità di assumere un pensiero critico, anche Rusty ebbe un ruolo inconsapevole.
La sua fine disperata lo nobilita in qualche modo ai nostri occhi, perché è stato anch’egli vittima dei carnefici del Quarantacinque che – se ne facciano una ragione quelli che il mondo è cambiato – non hanno smesso di annientare popoli e uomini.
Meglio un Rusty in overdose che tutti quelli che ci vogliono insegnare a vivere all’americana, in qualsiasi modo essi l’intendano.

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